Ragione e sentimento.
Il cambiamento auspicabile

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Ragione e sentimento. Il cambiamento auspicabile

È mattina presto. È la strada che percorro ogni giorno.

Devo recarmi al lavoro. Ebbene sì, ho usato devo.

Devo perché in questo momento che dura da circa un anno io non voglio più. Sì, proprio così.

Ho detto che non voglio recarmi più al lavoro.

Non voglio alzarmi, non voglio lavarmi, non voglio timbrare e non voglio incontrare il custode.

Non voglio sedermi alla mia scrivania, toccare le carte sul tavolo, rispondere alle mail e ascoltare tutte, ma proprio tutte le persone che mi telefonano ogni giorno.

Non voglio accendere il computer ed immergermi con la testa nel video nel tentativo di... di... di fare cosa?

Non lo so neanche più.

Programmo, organizzo, scrivo relazioni, faccio firmare, sorrido al collega, poi sorrido di nuovo.

Un sorriso immobile sul viso. Il caffè alle 11.00, se tutto va bene.

E poi la collega del terzo piano.

Brava lei con quell’aria da donna in carriera.

“Sotuttoio” e tu guai a correggere errori, a pensare soluzioni. No. Le consegni il materiale, come un mulo.

Aspetti un grazie e ti arriva un “prego, ma le pare”.

Mi siedo. Espressione assente, ormai da qualche giorno... anno.

Sveglia alle 6.30. mi alzo alle 7.00 per non sentire problemi, urla, richieste.

Un caffè se ci riesco, altrimenti svicolo nel bagno. Sotto la doccia, sotto il frastuono dell’acqua.

E poi giacca, cravatta, camicia ben stirata. Le scarpe sono lucide.

Comprate da poco durante una pausa pranzo.

Arrivo in ufficio. Scooter e 24 ore.

Casco, auricolare, guanti. Salgo le scale. Il portiere. Mi guarda perplesso, mi saluta con un cenno del capo.

Ricambio. Marmi, neon, rumore di passi frettolosi. Profumi, troppi.

È solo mattina. Le scale. La porta conosciuta. Saluto il collega.

Non ne ho granché voglia.

Comunque mi siedo. Riunione alle 9.00.

Penso tra me e me con amara ironia: “Certo, avrebbe potuto anticiparla alle 7.00 di mattina, così sarei venuto in pantofole e pigiama!”.

Non ci credo più. Per due ore occuperanno il mio tempo. Poteva essere libero, invece è vincolato.

Da chi? Non lo so con esattezza, penso. Forse dall’organizzazione. Parleremo, anzi, parleranno.

Delle assunzioni, dei licenziamenti, dei nuovi incarichi, e pure di quello s... del nuovo capo...che organizza riunioni alle 9.00.

Lui è entrato da circa un anno.

L’hanno chiamato da una importante multinazionale.

Fautore dei cambiamenti. Profeta dei tagli. Imperatore dell’efficientismo.

Lo hanno eletto. Chi?

Il consiglio di amministrazione. Parla, sempre troppo. Organizza, telefona, chiede e si risponde.

Sempre energico, sempre pronto all’azione.

Foto di famiglia sul tavolo. Lui biondo, lei bionda, il bambino e la bambina biondi.

Tanti occhi azzurri e denti bianchi. La penna del Madagascar, la foto della vacanza in Polinesia, l’ultima trota presa con l’amico del cuore.

Lui, indiscutibile re del Power Point, conoscitore attento dell’organigramma.

Noto estimatore dei piani di sviluppo e di carriera dei dipendenti.

Parla un po’ inglese e un po’ italiano. Organizza riunioni. Si perché pensa di poterci coinvolgere.

Pensa di poterci far sentire ancora importanti in questa barca che fa acqua da tutte le parti.

Parla al plurale. C’è sempre un “noi” che spunta dalle sue labbra.

Come c’è un “noi” che spunta dalle mie. Il suo “noi” illustra futuri gloriosi, riprese economiche mirabolanti, investimenti.

Il mio “noi” è di chi come me in questo momento ha avuto un vuoto di senso, di chi si è sentito tradito, di chi ha investito voglia, desideri, ore, testa e cuore per ottenere, ottenere, dimostrare, acquisire vantaggi per l’organizzazione.

La mia, di cui mi sento parte, parte del tutto.

A volte mi confondo, altre volte ne sento i confini. Ma è la mia organizzazione.

Mia, cioè non è che proprio mi appartiene, ma è come se lo fosse.

Perché ci vivo per 9 ore al giorno, se non ci sono guai e riunioni in vista.

Perché ci sono entrato quando ero poco più che laureato.

Cioè laureato e due giorni dopo. Perché ci ho creduto e perché conosco tutti.

Tutti i piani, tutte le persone, il custode, la ragazza della mensa, la segretaria del direttore.

E me. Sì, mi conosco e non so se potrò reggere a lungo.

Mi sento sballottato, senza un futuro, in balia degli eventi e di quello lì.

“È il mercato, è il mercato” urla “bisogna essere più competitivi!”. Io non ho più idee e a dire il vero quelle che ho le tengo per me.

Leggo distratto poche righe su di una rivista di settore:

“La dimensione del cambiamento è una delle condizioni che caratterizzano l’agire umano.

“Nei contesti organizzativi l’economia diventa un possibile elemento di destabilizzazione...”.
Scorro velocemente il testo...

“La mancanza di strumenti per governare processi di cambiamento in modo consapevole ha avuto ripercussioni sull'organizzazione degli uffici e sul livello qualitativo dei prodotti/servizi erogati”.

Ma dai... non me ne ero accorto...

“Tra i temi di management più dibattuti negli ultimi anni un posto di particolare rilievo è occupato...”.

Mi addormento e comincio a sognare...sogno di essere ad una riunione.

Zittisco in malo modo il mio capo e parlo, parlo senza interrompermi, con autorevolezza.

Non so quello che dico, ma in fondo penso che sia vero.

Lontano dalle teorie e dalle dottrine, ma vicini ad esse, penso che le persone cambiano e che devono essere aiutate.

Appoggiate ed aiutate a pensare, a costruire strumenti, modelli, paradigmi, per raccontarsi e raccontare nuove storie che siano il più vicino possibile a sensazioni ed emozioni innominabili e a volte incomprensibili.

Poiché per poter spiegare un malessere individuale, che però risiede in un gruppo, è necessario poterne parlare e non lasciarlo sedimentare in solitudine nella propria mente.

In modo chiaro e comprensibile.

Senza inutili lamentele o senza cercare colpevoli.

Quello che importa è poter dare nome a qualcosa che non può essere conosciuto e nominato.

E solo con un gruppo è possibile spiegare e spiegarsi ciò che avviene nel gruppo.

E racconto, racconto che solo attraverso un meccanismo di bilanciamento tra elementi complessi della realtà e semplificazione dei modelli teorici di riferimento, è possibile pensare una azione organizzativa efficace e incisiva nel buon governo del cambiamento.

Ragione e sentimento. Il cambiamento auspicabile

 

Il cambiamento si raffigura con un elemento di contingenza, ovvero non è possibile prevedere in maniera rigorosa cosa succederà e soprattutto ipotizzare un approccio risolutivo e gestionale scientifico.

Al contrario, è possibile accostarsi come si farebbe ad un luogo sconosciuto, con una mappa – teoria, modelli revisionali, strumenti gestionali – in una mano e tanto buon senso, inteso come quella miscellanea interessante tra percezione e ragionamento nell’altra, pronti a farci carico dell’elemento di imprevedibilità.

Parlare di cambiamento nei contesti organizzativi significa parlare di un insieme variegato di fattori, laddove persone ed organizzazioni si confondono con economia, società e leggi.

Difficile pensare che i segnali di cambiamento nelle organizzazioni si presentino in modo immediato.

È probabile che l’insieme di elementi, che a posteriori vengono a definirsi come uno stato di transizione, sia frutto di scelte, strategie, comportamenti, credenze, idee, meccanismi operativi, che si sono stratificati nel corso degli anni e che, mano a mano, sono andati a fondersi con l’identità dell’organizzazione stessa.

Di sicuro si tratta di un passato, di un’eredità che, se pur ha portato nel corso del tempo ad uno stato di impasse, è pur sempre un passato che tranquillizza, rassicura.

Una storia nella quale l’organizzazione si conosce e si riconosce.

I timori e le ansie, a volte, impediscono di individuare nella realtà quotidiana gli indicatori di un cambiamento prevedibile.

L’attribuzione di colpe, lo scaricabarile e il reciproco scambio di accuse tra i livelli gerarchici e quelli operativi paralizzano la pensabilità del cambiamento stesso, determinando il cristallizzarsi della situazione di transizione.

Alla ricerca di un colpevole, il movimento frenetico, deprivato di qualsiasi chiarezza e senso, prende il sopravvento.

Il capovolgimento è vicino. Il malessere aumenta.

Le persone si ammalano e l’organizzazione perde di lucentezza.

Allora bisogna ricorrere ai ripari.

Ovvero a consulenti esterni, nuovi capi, che possano darci indicazioni precise, ricette infallibili e strategie immediate per rendere stabile la barca.

Il verdetto è dato.

Da oggi in poi sarà necessario agire su tre livelli:

  1. operativo, con la creazione di un nuovo know how e con un ridisegno dei processi operativi;
  1. organizzativo, con la ridefinizione di nuovi modelli di azione condivisi;
  1. strategico, con il coinvolgimento del personale per definire nuove modalità comportamentali ed individuare nuovi paradigmi decisionali.

Forse bisogna anche pensare che ricette infallibili non ce ne sono e che vanno recepiti tutti i segnali, anche quelli più deboli, inviati dalle persone e dall’organizzazione, individuando i paradossi, le distorsioni, le assenze e le resistenze che non permettono di evolvere perchè alzano un polverone tale da nascondere la possibilità di assestarsi su nuovi elementi ed individuare i percorsi più idonei.

Allora sarà possibile pensare ad una nuova leadership del cambiamento, che trasformi realmente il “personale” nelle persone che sentono di appartenere ad un’unica organizzazione ed avvertono la necessità di sostenerla.

Soprattutto, poter pensare che non sono le organizzazioni che cambiano ma le persone che vi fanno parte.

Questo sì che è un nuovo paradigma.

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