Un destino acquatico

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Un destino acquatico

Allo scrittore inglese D.H. Lawrence, l’Italia piaceva molto.

In particolare, era affascinato dagli “Etruscan Places” tanto da scrivere l’omonima raccolta di racconti e resoconti sui luoghi da lui visitati negli anni Trenta.

All’interno del museo archeologico di Tarquinia (VT), è riportata una sua citazione che trovo veramente affascinante.

Nudo e splendente l’uomo si muove nell’universo.

Poi giunge la morte: è un tuffo nel mare, una partenza.

Il mare è quella vasta creatura primordiale, anch’essa animata, la cui interiorità è il grembo da cui tutte le cose sono emerse e in cui tutte sono destinate a ritornare. (1932)

La vita primordiale viene dal mare, noi galleggiamo nel liquido amniotico per nove mesi e, nella suggestione poetica di Lawrence, rifluiremo nel mare, inteso come il grande oceano dell’esistenza.

Oltre al fascino della “vasta creatura” o al vagheggiamento di una condizione idillica nella placenta, bisogna riconoscere che questo nostro “destino acquatico” costituisce a volte la causa di angosce esistenziali più o meno velate.

L’arte e la letteratura contemporanee hanno interpretato tale nostra condizione di fluidità collegandola tematicamente ad una delle più importanti riflessioni contemporanee: l’“Io insalvabile” di Ernst Mach.

Il filosofo e fisico austriaco (1836-1916) parla di un Io che, scorrendo nel tempo come in un’acqua fluviale, non riesce ad ancorarsi ad una
tenace identità con se stesso e, per questo motivo, si dissolve in un inafferrabile – ed anche indescrivibile – fluire esistenziale.

Possiamo ritrovare la sottile percezione di questa inarrestabile fluidità della vita in espressioni filosofiche e poetiche come: “Tutto scorre”, (Eraclito), “La vita fugge e non s’arresta un’ora” (Petrarca), “Vivere è un bersi senza sete” (Jean Paul Sartre), “Naufragar m’è dolce in questo mare” (Leopardi).

Forse proprio tale caratteristica fluttuante dell’Io è alla radice di alcune “incomplete percezioni di identità”, nelle quali le persone stentano o non riescono a riconoscere tratti stabili della propria personalità e/o un senso di appartenenza a contesti sociali durante il corso della loro vita.

In altre parole, a volte può essere molto più semplice rispondere alla domanda “da dove vengo”, piuttosto che a quella “chi sono e soprattutto come mi sto evolvendo ”, perché il chi sono è sempre “un caotico movimento di acqua” che si frange sullo scoglio della vita.

La Psicologia del Cambiamento attinge a piene mani dalla letteratura per sviluppare altre riflessioni sull’“acquaticità” dell’Io, coinvolto nelle irrequiete correnti degli eventi esistenziali che possono travolgere ogni riferimento all’identità personale.

Possiamo trovare contenuti interessanti in questa prospettiva nelle opere di Luigi Pirandello ed in quelle di Vincenzo Cardarelli.

In Come tu mi vuoi (1930), il personaggio pirandelliano Elma, spiega così il suo nome: “Nome arabo: sa che significa? Acqua...acqua”; e lo dice, come il drammaturgo siciliano sottolinea nella didascalia, “allargando le mani, per significare la sua voluta inconsistenza”.

Sempre Pirandello in Vestire gli ignudi (1922), fa dire ad Ersilia Drei: “Questa vita che mi dura – Dio mio che disperazione – senza che mi sia potuta mai, mai consistere in qualche modo”.

Un destino acquatico

 

Nella lirica Alla deriva – il titolo è sintomatico di certi stati d’animo e/o situazioni che a volte ci troviamo a vivere – Cardarelli esprime così il suo tormentato rapporto con il senso del tempo, testimoniato da un inevitabile “inabissamento dell’Io”.

Invano, invano lotto

per possedere i giorni

che mi travolgono rumorosi.

Io annego nel tempo.

Forse il fascino del tempo risiede proprio nei suoi misteriosi paradossi della quantità ed inconsistenza, della durata e fugacità, in questo lasciare che il nostro Io venga trascinato dalla corrente mentre cerca nello stesso tempo punti di ancoraggio.

Insomma la vita è una specie di rafting!

La domanda che possiamo porci con il sorriso sulle labbra è: “Come possiamo cogliere l’attimo se è fuggente?”.

In chiave ironica, potremmo dire che purtroppo non disponiamo di un autovelox per contestare al tempo il suo eccesso di velocità!

L’arco temporale della nostra vita, è come un ponte ad unica campata che unisce la sponda del passato con quella del futuro mentre il fiume del presente scorre tra le due rive.

Ogni giorno lo attraversiamo con i nostri pensieri, i nostri desideri, le nostre proiezioni, le speranze e le fantasie.

È opportuno distinguere due tipi di futuri: quello delle persone – in- certo – e quello universale – certo, nel senso che esiste sottoforma di eternità.

La conseguenza per noi è che il futuro individuale è una dimensione che esiste solo nella nostra mente e che di fatto coincide con la nostra “speranza di vita”.

Tale speranza si regge su una necessaria “illusione psicologica”, quella che domani ci saremo ancora. Senza questa “illusione”, impazziremmo di paura.

Nel suo disincantato realismo umoristico il poeta romano Giuseppe Gioachino Belli ci ricorda che, “La morte sta anniscosta nell’orologgi e gnisuno po’ dì: domani ancora sentirò batte er mezzogiorno d’oggi”.

La vita è dunque intrigante proprio perché incerta.

Il non sapere “né l’ora, né il giorno” della nostra dipartita rende il nostro cammino terreno ancora più eccitante.

Queste riflessioni valgono per noi come degli inviti ad una profonda consapevolezza del valore del tempo e dei nostri vissuti.

Sprecare tempo, infatti, equivale a sprecare la vita stessa.

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