Come e perche’ “vendere” l’azienda ai dipendenti

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Come e perche’ “vendere” l’azienda ai dipendenti

Il concetto di “orientamento al cliente”, sviluppatosi in modo significativo in Italia a partire dagli anni novanta, ha prodotto nel tempo un curioso fenomeno: in diversi casi, le comunicazioni del marketing esterno appaiono inversamente proporzionali, per quantità e qualità, a quelle del marketing interno.

Risultato?

Sempre meno manager si preoccupano di “vendere” l’azienda ai loro collaboratori, generando a volte dei veri e propri paradossi...

L’orientamento al cliente è stato ed è tuttora uno dei cavalli di battaglia del marketing esterno, non solo in termini di comunicazione ma anche a livello di formazione e cultura manageriale.

Tuttavia, sempre più persone, all’interno delle organizzazioni, si stanno accorgendo dell’incongruenza tra i messaggi del marketing esterno e quelli del marketing interno.

Commenti del tipo: “Come al solito, il cambiamento ci cala dall’alto”, “Ci assegnano il budget da raggiungere ma non ci coinvolgono sulle strategie di vendita.

Eppure siamo noi a contatto con il mercato e con i clienti”, “Siamo certificati nella Qualità, ma di quale qualità parliamo se non riusciamo neanche ad organizzare il lavoro in ufficio?”, oppure il rivisitato proverbio: “Predicano bene all’esterno e razzolano male all’interno”, sono sintomatiche espressioni del fenomeno di sbilanciamento comunicativo di cui ci occuperemo in questo articolo.

Di solito, il management tende a tenere separati i due processi comunicativi nel senso che il marketing esterno “segue le sue regole” mentre quello interno “è lasciato” alle dinamiche aziendali caratterizzate dagli stili di leadership, dalle priorità individuate e dalla cultura organizzativa.

Questo è il punto da cui lo sbilanciamento prende avvio.

Un esempio, per capire.

Il top management decide di avviare campagne e/o progetti di sviluppo commerciale.

Tutte le funzioni aziendali coinvolte, dal marketing agli specialisti di prodotto fino alla rete di vendita, sono chiamate a realizzarli e a raggiungere quindi i risultati definiti/attesi dalla dirigenza.

Gli investimenti nel battage pubblicitario e nel marketing esterno sono cospicui: se potesse, l’azienda ingaggerebbe Philip Kotler in persona.

Le persone vengono coinvolte e mobilitate, ma con quali modalità?

Quale investimento è stato fatto per “vendere” opportunamente all’interno dell’azienda l’ambizioso progetto di sviluppo?

In realtà, il marketing interno si riduce spesso ad una serie di comunicazioni formali, di interventi iformativi altrettanto formali e direttive più o meno imposte.

Il venditore che afferma: “Io non credo nel prodotto”, è il tipico esempio di “mancata vendita interna”: l’azienda ha trascurato il fatto fondamentale che il primo cliente dei suoi prodotti/servizi è il venditore stesso.

Rimanendo ancora in ambito commerciale, una delle più grandi difficoltà che oggi incontrano le piccole e medie imprese riguarda la gestione degli agenti plurimandatari: tali figure, infatti, tendono a vendere prioritariamente prodotti/servizi di alcune aziende a più elevato margine di redditività, tralasciando o “dimenticando” quelli di altre aziende che rendono meno.

Ecco un’altra situazione in cui l’azienda penalizzata da tali atteggiamenti è chiamata a realizzare una vera e propria “vendita psicologica” nei confronti degli agenti.

Accade invece che la direzione commerciale e/o la proprietà si limitino ad organizzare incontri in cui ci si vede solo per il calcolo delle provvigioni o per un pranzo insieme.

Vendere l’azienda ai collaboratori impegna dunque il management ad adottare uno stile di leadership e di comunicazione più partecipativo e coinvolgente, fermo restando il fatto che gli obiettivi vanno comunque raggiunti.

Possiamo infatti ricordare simpaticamente che ogni azienda è una via di mezzo tra una “dittatura” – l’insieme delle direttive non negoziabili – ed una “democrazia”, intesa come la possibilità di partecipazione alla presa di decisioni in funzione della posizione ricoperta.

A volte, la sottile linea di demarcazione tra le due condizioni non è così facile intravederla, anzi.

La conseguenza di tale ambivalenza è che s’innescano una serie di dinamiche tensionali foriere di insoddisfazioni e frustrazioni.

Tuttavia, tale situazione, in una certa misura, “fa parte del gioco”, nel senso che per definizione le organizzazioni sono sistemi emotivamente instabili in quanto composti da esseri umani.

Il management è chiamato al governo intelligente dell’emotività inevitabilmente generata all’interno del sistema.

Una delle modalità più efficaci per assicurare stabilità emotiva è attraverso il bilanciamento comunicativo tra marketing esterno e marketing interno: saper comunicare prodotti e servizi al mercato è almeno altrettanto importante del saper vendere l’azienda ai dipendenti.

La trascuratezza di questo fondamentale elemento di gestione delle persone determina una vera e propria patologia organizzativa in cui il marketing esterno, in termini di comunicazione, diventa bulimico – evidenziando, ad esempio, ipertrofici budget destinati alla pubblicità – mentre quello interno soffre di anoressia – “Il Direttore del Personale: chi l’ha visto?”

Prendiamo in esame i seguenti casi di paradosso.

La pubblicità narcisistica

“Siamo un’azienda leader”.

XY progetta nuove dimensioni della comunicazione attraverso formule innovative. Eccellenza tecnologica, esperienza, ricerca e straordinaria capacità di integrazione fanno di XY uno dei principali fornitori al mondo del settore. Tot milioni di euro di fatturato, tot numero di dipendenti, di cui tot dedicati alla ricerca, tot sedi nel mondo”.

A parte la caratteristica di forte autoreferenzialità sconfinante in un fastidioso narcisismo di questa come di molte altre forme di comunicazione pubblicitaria, il fenomeno che colpisce l’osservatore esperto è la forbice aperta tra la realtà “dichiarata” e quella vissuta da dipendenti e collaboratori all’interno dell’organizzazione.

Lo scollamento tra la leadership comunicata e anche effettivamente agita nel mercato e quella esercitata all’interno dei gruppi di lavoro diventa spesso un divario difficilmente colmabile.

Al mercato viene trasmessa un’immagine di “forte integrazione” mentre all’interno le persone fanno fatica a comunicare tra loro. All’esterno l’azienda invia segnali continui di efficienza ed efficacia ma all’interno le persone “si mettono le mani nei capelli”.

Alla magnificenza creativa delle icone elaborate dal marketing esterno corrisponde, in diversi casi, una stigmatizzante percezione dei collaboratori: “E’ tutta apparenza”.

“Prendersi cura” del cliente esterno senza trascurare quello interno

Uno degli stili comunicativi maggiormente caratterizzanti il modo attuale di fare marketing esterno è la volontà dichiarata dall’azienda di prendersi cura del cliente, di coccolarlo e di farlo sentire al centro delle sue attenzioni.

Anche se tale orientamento si riduce in molti casi esclusivamente ad aride promozioni basate su prezzi bassi e sconti, l’impatto psicologico che crea in termini di distonia all’interno dell’azienda è comunque rilevante.

Ho ascoltato persone lamentarsi – giustamente – non solo del fatto che l’azienda non dava loro un minimo di buoni pasto ma che non ci fosse nella struttura neanche un luogo dove mangiare un panino: chi mangia in piedi sul corridoio, chi addirittura in macchina nel parcheggio!

A volte, le modalità di gestione del cliente interno non sono proprio in linea con “il prendersi cura” comunicato al cliente esterno.

Trascurare e/o stressare le persone all’interno e comunicare all’esterno un’immagine patinata di sorrisi e benessere rappresenta proprio un eclatante paradosso.

Il “gioco di squadra”

Il gioco di squadra è uno dei leitmotiv più gettonati degli ultimi anni dal marketing esterno ed è contemporaneamente anche quello che genera le incongruenze più significative.

“Siamo per il gioco di squadra”, “Amiamo il gioco di squadra” o “Il team che gioca per il tuo successo” rappresentano alcune tipiche espressioni veicolate al mercato attraverso le modalità più disparate: loghi, pay off, sponsorizzazioni con squadre sportive, spot pubblicitari, campioni dello sport coinvolti come testimonial, eventi a tema. Il concetto e la cultura del “team” hanno invaso la formazione, l’approccio alla leadership ed il modo stesso di intendere l’organizzazione.

In alcuni casi, tale impostazione ha creato reale valore aggiunto nei modelli organizzativi che hanno imparato a funzionare attraverso team di lavoro.

In altri contesti, il gioco di squadra è stato vissuto, nella migliore delle ipotesi, come la “moda del momento”, né più né meno alla stregua di un abito griffato della nuova stagione.

In questi casi, i paradossi generati riguardano soprattutto il fatto che le persone all’interno dell’azienda non vivono affatto il gioco di squadra, così tanto sbandierato all’esterno, ma addirittura percepiscono l’insularità del loro ruolo e/o del proprio gruppo di lavoro rispetto all’organizzazione.

Tale scollegamento psicologico dal contesto organizzativo rappresenta di fatto l’antitesi del gioco di squadra.

Il sentirsi “non integrati”, “non considerati”, “isole felici” dalla dubbia felicità o il vivere i cambiamenti “imposti o calati dall’alto”, sono molto probabilmente effetti del forte disallineamento tra il marketing esterno e quello interno.

Perché vendere l’azienda ai dipendenti

Tali riflessioni ci portano a comprendere perché è necessario “saper vendere l’azienda” ai dipendenti.

L’orientamento al cliente interno non può consistere soltanto nell’occasionalità di una cena aziendale o nella convention ludico-motivazionale: deve diventare uno stile di gestione che sappia integrare le dimensioni quotidiane con quelle straordinarie in una logica di coerenza e rispetto, di coinvolgimento emotivo e di appartenenza realmente vissuta da tutti i dipendenti.

Ad uno sguardo attento non sfugge il fatto che, in diversi casi, i concetti di “vision”, “mission”, “company values” rimangono impressi più su dei pezzi di carta che nei cuori e nelle menti delle persone. Vendere l’azienda significa far sedimentare nelle persone i semi della “corporate identity” e farli crescere attraverso opportune fertilizzazioni ed irrigazioni.

Infatti, un conto è appendere sulla parete i valori aziendali, altra cosa è facilitarne l’interiorizzazione da parte di tutti gli attori organizzativi.

Credo che oggi la sfida del marketing interno sia rappresentata proprio dal riuscire a far sentire ogni collaboratore un “cittadino dell’impresa”.

Come l’antica polis greca, l’azienda diventa in questa prospettiva un modello di apertura e scambio sia all’interno, sia all’esterno, un luogo dove il lavoro possa essere trasformato in “arte” e la mente si nutra di stimoli positivi, una comunità in cui ognuno possa vivere da “cittadino gratificato” piuttosto che da suddito passivo o reazionario.

Nell’azienda polis, management significa sostanzialmente saper costruire una cultura del “commitment” e della soddisfazione condivisa.

Tale termine, incomprensibilmente poco interiorizzato dai manager, amplia nella sua traduzione il concetto di motivazione, arricchendolo di altre importanti sfumature psicologiche ed operative.

Come e perche’ “vendere” l’azienda ai dipendenti

Commitment in azienda significa:

  • la misura in cui ognuno si sente emotivamente coinvolto nel raggiungimento degli obiettivi assegnati a livello individuale e di gruppo;
  • la misura in cui ognuno vuole contribuire fattivamente ai processi di problem solving e di produttività all’interno del proprio gruppo di lavoro;
  • la misura in cui ognuno identifica gli obiettivi personali con quelli dell’azienda.

L’arcaico concetto di senso di appartenenza all’azienda, spesso identificata come una “mamma” protettiva e rassicurante, lascia oggi il posto ad una percezione del lavoro e delle organizzazioni diversa, meno edipica e molto più adulta.

La naturale conseguenza di tale passaggio mentale e culturale è che non solo il cliente finale è molto più esigente, informato e fondamentalmente più evoluto di prima: lo sono anche i dipendenti!

La sfida attuale che i manager si trovano ad affrontare consiste nel gestire persone che vivono ormai la multiappartenenza a vari contesti di vita, desiderano un maggior equilibrio tra vita lavorativa e vista personale, nutrono nei confronti dell’azienda forti aspettative di crescita, tendono ad identificarsi prevalentemente con la propria professionalità.

Gli stimoli, le continue sollecitazioni e l’immagine che le organizzazioni si sforzano di inviare all’esterno devono trovare un controbilanciamento nel proprio “mercato interno” dal momento che dipendenti e collaboratori vanno considerati i primi clienti dell’azienda.

In sostanza, per favorire il riallineamento tra marketing esterno e marketing interno e quindi la relativa percezione di congruenza da parte delle persone, il management deve comprendere che, se da un lato “Essere direttivi in certi casi è necessario” e “La strada del consenso non sempre è opportuno intraprenderla”, dall’altro lavorare sulla comunicazione interna e sulla vendita psicologica è un investimento che apporta benefici a tutti i livelli.

Le buone prassi aziendali

In sintesi, la soddisfazione dei dipendenti è significativamente legata al fatto che “qualcuno di importante in azienda” avrà comunicato loro gli obiettivi da raggiungere in modo chiaro ed esaustivo, ha argomentato efficacemente il “perché” ed il “come” vanno raggiunti, ha creato le “giuste” condizioni psicologiche di sfida e di motivazione e si è preoccupato, se non di creare pieno consenso sugli obiettivi, almeno di ascoltare i dubbi ed i timori paventati dalle persone.

La soddisfazione è prima di tutto il risultato di un processo interno alle persone – ognuno è responsabile del proprio senso di soddisfazione rispetto al lavoro che svolge e all’organizzazione in cui opera.

In secondo luogo, è strettamente connessa all’azione manageriale: come viene agita la leadership e quali modelli di comunicazione vengono veicolati all’interno dell’organizzazione.

“Vendere” l’azienda ai dipendenti presuppone dunque l’attivazione da parte del management di una serie di prassi comunicative e gestionali finalizzate a:

  • far ancorare psicologicamente le persone ai punti forti dell’organizzazione invitando tutti a far leva su di essi, soprattutto nei momenti di crisi e di destabilizzazione;
  • rendere l’organizzazione dinamica e luogo di apprendimento continuo;
  • stimolare, coinvolgere e far crescere le persone;
  • trasmettere la vision, la mission ed i valori connessi attraverso l’esempio, la congruenza comunicativa tra marketing esterno ed interno, in ogni occasione di scambio e di incontro, utilizzando un linguaggio scevro da falsa retorica ed artifici semantici astratti;
  • argomentare i vantaggi reali che un cambiamento, un nuovo modello organizzativo od un progetto di sviluppo su ampia scala apporteranno alle persone e all’organizzazione;
  • avvicinare quanto più possibile le attività formative alle dimensioni quotidiane delle persone;
  • fidelizzare i migliori dipendenti e collaboratori, attraverso strategie di customer satisfaction interna.

La pianificazione strategica della comunicazione

In sintesi, possiamo affermare che non basta “vendere” l’azienda ai dipendenti, bisogna anche accertarsi che l’abbiano realmente “acquistata”!

Il management intelligente ricerca continui feedback nell’ambiente lavorativo e monitora costantemente i livelli di partecipazione, commitment e soddisfazione dei clienti interni al fine di operare tempestivamente azioni correttive laddove ne valuti la necessità e/o l’opportunità.

Il principio guida è il seguente: quanto più è elevato il grado di partecipazione, tanto più le persone si impegnano “nella formulazione di soluzioni innovative (...).

Questo impegno, che va a favorire la mobilitazione degli attori in un progetto comune, è potenzialmente fonte di innovazione e di creatività, tenuto conto del potenziale delle persone interessate"1.

Tale prospettiva favorisce anche lo sviluppo di competenze come l'analisi dei problemi, la scelta di soluzioni, la messa in atto di decisioni, la valutazione dell'efficacia di queste stesse decisioni. Inoltre, la partecipazione “contribuisce abitualmente a migliorare il clima di lavoro e le relazioni tra i lavoratori e la direzione e tra i lavoratori stessi".2

In conclusione, che cosa occorre fare?

Sicuramente elaborare un nuovo approccio ai processi di pianificazione strategica della comunicazione, partendo dal presupposto che la definizione della mission e dei valori core ne è parte integrante, importante almeno quanto la scelta del business e la formulazione delle strategie.

E’ necessario dunque ripensare all’essenza della comunicazione nella sua accezione semantica di “azione che mette in comune”: idee, sentimenti, emozioni, comportamenti, valori, convinzioni e finalità da condividere attraverso continui scambi e confronti, anche accesi se questo serve a motivare e a smuovere le stagnanti acque del “quieto vivere”.

“Put People First”, metti le persone al primo posto: un grande suggerimento da mettere in pratica.

1 Lescarbeau R. (1994), 2003, L'enquête feed-back, Presses de l'Université de Montréal, Montréal

2 Ibidem

Tratto da L’informatore INAZ 19/2006

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