E’ ancora possibile l’etica nel business?

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E’ ancora possibile l’etica nel business?

Quale sarà il futuro dei prossimi cinquanta anni dal punto di vista sociale?”. Questa difficile domanda l’ha posta come riflessione ad alta voce un manager che ho incontrato un anno fa nella sua azienda.

Nel quesito, riecheggiava la preoccupazione per l’etica nel suo settore – produzione e vendita di strumenti per la diagnostica nel fitness – dove il mercato è stato “scippato” – sue testuali parole – da imprese non etiche.

Tale constatazione deriva dal fatto che, sempre secondo quel manager, c’è chi fonda la realizzazione di prodotti e di servizi su una solida base di investimenti in ricerca e sviluppo e chi invece improvvisa o addirittura delinque nel realizzare imitazioni degli stessi prodotti/servizi con scarsa qualità delle materie prime, delocalizzando la produzione in Paesi che non rispettano neanche i fondamentali diritti umani dei lavoratori.

Il caso riportato esemplifica in modo significativo l’attuale “lotta competitiva” tra aziende etiche ed aziende non etiche.

In ogni caso, prima dell’ ardua sentenza alla domanda che titola il nostro articolo, proviamo a definire e comprendere i requisiti di un business etico.

Definiamo un business etico quando un’ azienda:

  • rispetta o si impegna a far rispettare i diritti umani fondamentali di tutta la filiera produttiva dei lavoratori coinvolti nei rispettivi Paesi di insediamento dell’organizzazione;
  • non depreda l’ambiente di risorse non rinnovabili – come il suolo, ad esempio – e di materie prime;
  • non inquina né deturpa paesaggi naturali;
  • offre prodotti e servizi nel giusto rapporto tra prezzo al cliente e margine per l’azienda;
  • non mette a rischio la salute dei Clienti con prodotti contraffatti o tossici;
  • è corretta nei bilanci ed attua com- portamenti virtuosi in Borsa.
  • è trasparente nel rapporto con i Clienti e li assiste nel post vendita.
  • persegue uno sviluppo compatibile con le proprie reali risorse

L’ insieme di queste caratteristiche rappresenta un’utile check list con la quale ogni azienda dovrebbe confrontare le proprie visioni, strategie ed operatività.

Le parole chiave sono: trasparenza, correttezza, credibilità, coraggio e coerenza.

Il risultato della loro azione combinata definisce il livello di reputazione che l’azienda è in grado di far percepire al mercato. In termini pratici, ogni azienda oggi dovrebbe tenere ben presente la sostanziale differenza che passa tra il “Logo” ed il “Brand”.

Il primo è semplicemente un segno grafico legato all’immagine aziendale, eventualmente arricchito di un “claim”, di un “pay off” o di una “value proposition”.

Il secondo, invece, rappresenta il valore simbolico ed esperienziale nella mente del cliente ma anche del dipendente o del fornitore, la percezione della qualità di un prodotto e/o di un servizio legata al vissuto dell’ acquisto e della fruizione.

Un Brand si lega inevitabilmente al contesto sociale, alla storia passata o recente di un territorio, alle relazioni che l’azienda instaura con tutte le persone interessate al suo successo.

Un conto, quindi, è “Conoscere il Logo” – “L’ho visto in una pubblicità, sul web o me ne hanno parlato” – altra questione, invece, è “Riconoscere il Brand” perché “Sono un cliente od un dipendente soddisfatto dell’azienda da molti anni”.

L’obiettivo di ogni impresa etica è dunque quello di durare nel tempo, rimanendo in ottima salute per generare valore sociale commerciale.

L’etica applicata nel business assicura che tutti vincano, ambiente compreso. Quando invece l’etica è a rischio o è del tutto assente, vince uno solo.

Come hanno dimostrato i comportamenti di alcune banche e società finanziarie americane coinvolte nella crisi dei mutui subprime, l’impatto sociale della mancanza di etica in un mondo globalizzato è più devastante di uno tsunami.

Come sottolinea Enzo Badioli: “L’uomo non esiste solo per se stesso, ma anche come componente di una famiglia e membro di una comunità. Un’impresa che non abbia consapevolezza ed attenzione per tutto ciò è un’ impresa con scarse attitudini all’eticità”.

L’obiettivo di ogni impresa non etica è quello di durare il tempo necessario per intascare soldi pubblici o rubati ai clienti e rifugiarsi poi in qualche paradiso fiscale.

Dietro ogni impresa ed ogni istituzione, ci sono naturalmente le persone con i loro comportamenti che fanno la differenza tra etica e non etica – “Ethos”, in greco, significa proprio comportamento – risultando, alla fine, credibili o non credibili nella percezione di collaboratori, clienti e cittadini.

A meno di essere un fachiro, per un manager o per un politico non avere credibilità è come camminare su una strada disseminata di pietre aguzze e cocci di bottiglia.

Può essere interessante soffermarsi, a questo punto, sulla differenza tra etica e morale.

Pur richiamandosi al comune significato etimologico di comportamento, i due termini esprimono sfumature diverse che è utile poter cogliere: mentre l’etica fa riferimento al comportamento
individuale inteso come il risultato del rapporto tra azioni e scopi, la morale, collegandosi all’etimologia latina di “mos-moris”, costume, abitudine, si riferisce invece ai significati o risvolti sociali dei comportamenti, a quei comportamenti legati in particolare a tradizioni e a consuetudini della comunità di riferimento o dello Stato.

La censura degli anni Cinquanta in Italia, ad esempio, costituiva la tipica funzione pubblica deputata a giudicare la moralità di comportamenti espressi a livello sociale – come nei film o nella pubblicità – con tanto di appoggio di un “braccio poliziesco” – il famoso dipartimento di polizia del “buon costume” che vigilava nei locali ed in tutti gli altri spazi pubblici delle città.

Tale approfondimento sull’origine e sulle sfumature dei significati tra morale ed etica, ci porta ad una interessante definizione di etica:

“Un complesso di norme e di valori variamente distribuito fra le persone, diversamente presente nelle legislazioni e nei comportamenti amministrativi, variabile da popolo a popolo e, soprattutto, modificabile nel tempo”.

Modificabile nel tempo significa che, non solo ogni epoca genera la sua etica, ma anche un tipo di “etica” – ovvero di comportamento – definisce il carattere dell’epoca in cui viene attuata.

Ad esempio, la parola “mobbing” esprime la tendenza culturale in atto che mira ad edulcorare certi termini al fine di “normalizzarli” e a far passare per “socialmente accettabili” certi tipi di comportamenti, forse per un ingenuo tentativo di esorcizzare i pesanti significati di cui la parola è veicolo o, peggio ancora, per confondere le idee alle persone sul vero volto della realtà a cui fa riferimento.

E’ ancora possibile l’etica nel business?

Su questa scia, un 'altra parola addolcente o addolcita è “stalking”.

Invece di chiamare la persona come la si dovrebbe realmente chiamare ovvero molestatore o maniaco, viene definito dai media e dagli addetti ai lavori culturali come uno “stalker”.

Un'altra parola “normalizzante” è “escort” per indicare una prostituta.

Tornando alla parola mobbing, l’orecchiabile suono anglosassone del termine non deve farci dimenticare che esso esprime un comportamento psicologicamente violento, un sopruso del diritto umano fondamentale del rispetto e della dignità come persona.

Il mobbing rappresenta il fallimento totale della comunicazione e, se vogliamo, anche di quel buon senso che dovrebbe essere la prima risorsa da mettere in campo quando c’è un problema da risolvere nelle questioni della gestione del personale in azienda.

Rispetto a tali considerazione, l’aspetto più inquietante è la “normalità” o la “normalizzazione” che caratterizza la percezione ma anche la legittimazione di questi comportamenti.

Questo processo di normalizzazione assomiglia agli attuali paradigmi di pensiero che ci hanno abituato all’etichetta “risorse umane” o “consumatori”.

Proviamo ora a rispondere alla fatidica domanda: è ancora possibile l’etica nel business?

La risposta è: in parte si ed in parte no. La parte affermativa è quella naturalmente dell’augurio positivo, del buon auspicio che ci sia etica nel Business grazie ai comportamenti di tutte le persone oneste – che per fortuna sono molte – sulle quali possiamo ancora contare. La parte negativa è invece legata alla realistica considerazione che persone ed imprese non etiche sono esistite, esistono e purtroppo sempre esisteranno.

Il dilemma tra etica e non etica rimanda, in definitiva, alle due questioni fondamentali della libertà individuale e della responsabilità sociale di istituzioni ed imprese.

A questo punto, la domanda interessante è: che cos’è la libertà?

Cosa significa questo termine così usato ed abusato sia dalla politica, sia dal mercato?

Possiamo definire la libertà come la condizione per cui un individuo può decidere di agire senza costrizioni, attuando intenzionalmente dei comportamenti e ricorrendo ad una scelta discrezionale degli strumenti che ritiene utili per metterli in atto, al fine di conseguire obiettivi prefissati.

Il problema dell’etica prende le mosse proprio da questa definizione perché è collegato sia al tipo di comportamento che la persona sceglierà di agire rispetto agli scopi che si è prefissata di raggiungere, sia soprattutto al livello di consapevolezza che tale persona dimostra riguardo le conseguenze che le sue azioni avranno su se stesso, sugli altri e sull’ambiente circostante.

Ultimo, ma non da meno, la compatibilità di azioni e obiettivi personali con il sistema delle regole condivise e accettate socialmente.

“La mia libertà finisce dove inizia la tua” è l’assioma che ricorda a tutti la base della convivenza civile: ogni tipo di libertà – personale e di impresa deve essere fondata sul sistematico rispetto delle regole o della Costituzione, altrimenti ogni azione diventa libertinaggio ovvero una violazione di regole e principi, dalle conseguenza civili e penali.

Molte persone – compresi alcuni manager e politici – associano all’idea di libertà il poter fare tutto quello che si vuole o si pensa di poter fare.

Una libertà intesa come il mettere in atto il primo comportamento istintivo innescato da brame personali o impulsi emotivi.

Corrompere, degradare l’ambiente, rendere il lavoro precario, ingannare i mercati, produrre con scarsa qualità, sprecare denaro pubblico, perseguire soltanto il personale interesse, sono i comportamenti tipici di individui, aziende ed istituzioni che possiamo definire come “libertine”.

In questo caso, il termine “libertino” non è da associare simpaticamente al nostro Giacomo Casanova ma a tutti quei “business” privi di “sentimento etico”.

Il sentimento etico coincide con il sentimento di “libertà autolimitata”, con la capacità di conciliare l’interesse privato con il bene pubblico o aziendale, con il coraggio di cambiare o rimuovere quello che può ostacolare tale mediazione di interessi, spesso in evidente conflitto.

Le persone etiche sono realisticamente consapevoli che non tutto quello che viene affrontato può essere cambiato ma anche che niente può essere cambiato se non viene affrontato.

Ecco perché un business etico richiede di andare oltre le apparenze attraverso il “coraggio di esserlo” veramente.

Come già Sallustio espresse in modo magistrale:

“Esse quam videri bonus malebat”: Piuttosto che sembrare buono preferiva esserlo(De coniuratione Catilinae).

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