Per una nuova concezione del lavoro e della vita

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Per una nuova concezione del lavoro e della vita

«Chi è maestro dell'arte di vivere distingue poco fra il suo lavoro e il suo tempo libero, fra la sua mente e il suo corpo, la sua educazione e la sua ricreazione, il suo amore e la sua religione.

Con difficoltà sa cos'è che cosa.

Persegue semplicemente la sua visione dell'eccellenza in qualunque cosa egli faccia, lasciando agli altri decidere se stia lavorando o giocando.

Lui, pensa sempre di fare entrambe le cose insieme». Saggezza Zen

Quando la vita scorreva lentamente come un pigro fiume, la complessità esisteva, ma non veniva percepita dalla stragrande maggioranza delle persone.

Solo filosofi, scienziati ed artisti si addentravano con le loro modalità conoscitive nella complessità del reale.

Oggi tutti noi ce la sentiamo addosso, perché il ritmo si è fatto serrato come un torrente vorticoso.

E’ giunto il momento di dimenticare le regole deterministiche del “causa-effetto”: la complessità ed i continui cambiamenti che ne derivano non permettono l’estrapolazione del passato per la ricerca delle strade future.

La realtà è un sistema dinamico, che decide le sue traiettorie mentre esse si stanno svolgendo. Bisogna ricercare la quiete come espressione di una tranquillità interiore ma non la stasi, che si trova solo nelle cose morte.

La vita e tutto ciò che da essa emana è lontana dall’immobilismo, è ricerca continua del nuovo, un mettersi alla prova, è espressione di un’energia rinnovabile che garantisce sia la sopravvivenza sia il progresso.

Benvenuti nel concetto di cambiamento, dove la teoria della complessità è un tentativo di risposta al senso di inadeguatezza che percepiamo nonostante il continuo accumulo di conoscenza.

È una sfida per ciascuno di noi ed è una sfida per le nostre organizzazioni, alla ricerca del loro senso, in una continua ridefinizione delle loro opportunità.

Uomini, donne e aziende sono chiamati oggi a intraprendere un viaggio affascinante e allo stesso tempo rischioso all’orlo del caos, con la consapevolezza che la strada non è predefinita, ma il cammino si fa andando: è il Change Management With Humor, espressione che denota, come abbiamo visto, un particolare stile di leadership frutto dell’applicazione di specifiche capacità e visioni del lavoro.

Una leadership improntata al coraggio e alla pazienza, alla continua ricerca di modelli di eccellenza, pronta a trasformare i problemi in opportunità e le ansie in motori di propulsione.

Il Change Management With Humor è l’espressione di un atteggiamento di fondo volto ad accettare la sfida della complessità con le risorse della serenità, della creatività, della passione e dell’umorismo: il futuro appartiene a chi sa immaginarlo con un sorriso.

Le coppie olimpioniche di danza sul ghiaccio sono valutate dalla giuria, oltre che per gli “elementi tecnici” e le “componenti” delle figure coreografiche e acrobatiche che riproducono sulla pista, anche per la loro “espressività”, ossia il sorriso e la gestualità.

Non è certamente facile mantenere il sorriso durante la tensione agonistica, mentre si esegue una “trottola” o quando si è caduti dopo aver perso l’equilibrio; eppure, nella valutazione della performance incide anche il fattore sorriso.

La metafora sportiva ci riporta al fatto che ognuno di noi, nella vita di ogni giorno, ha la sua pista di pattinaggio sulla quale piroettare, cadere, rialzarsi, gareggiare, divertirsi, sorridere, rabbuiarsi, ricevere applausi o fischi.

L’esistenza comprende ogni tipo di situazione, il nostro non è un mondo perfetto e ad ognuno di noi manca sempre qualcosa.

Ci accorgiamo di questa nostra condizione “troppo umana”, osservando i volti delle persone nel traffico, in metropolitana, nelle strade, nei centri commerciali, nei luoghi di lavoro: molti di loro sono tristi, inespressivi o espressivi di uno stress cronico, deformati dall’insoddisfazione.

Probabilmente, è giunto il momento di rivedere radicalmente l’approccio individuale e collettivo alla vita.

Il futuro è scomparso, la velocità si è trasforma in fretta, la crescita senza progresso è diventata un Frankenstein fuggito dal laboratorio, il dubbio se “L’umanità appartenga ad un centinaio di persone o un centinaio di persone appartengano all’umanità” (Gandhi) è più radicato che mai.

Qualche anno fa, il Fisico Carlo Rubbia, parlando in un’intervista di sviluppo tecnologico, si espresse in questi termini: “Siamo su un treno che va a trecento chilometri all’ora, non sappiamo dove ci sta portando e, soprattutto, ci siamo accorti che non c’è il macchinista”.

Una volta ad Albert Einstein fu chiesto cosa succederebbe se scoppiasse la terza guerra mondiale.

Rispose: “Quello che so, è che di sicuro non ce ne sarà un quarta”.

Qualcuno potrebbe dire: “Non c’è da stare allegri con un quadro così fosco!”.

Invece è proprio questo il punto: bisogna che tutti ri-scopriamo la gioia e l’allegria come i valori portanti del ben-essere, per esorcizzare i mali derivanti dalle profonde contraddizioni della nostra epoca.

Considero necessario ristabilire un equilibrio con se stessi, con gli altri e con la natura, consapevoli del fatto che non c’è molto tempo da perdere.

Credo sia urgente recuperare il senso della collettività, della comunità, delle relazioni umane, troppo spesso sacrificato ad una visione individualista ed egocentrica della vita.

Il medio evo, associato a volte pregiudizialmente solo ad un epoca buia , ci offre invece una bella lezione di vita gioiosa e solare.

L’uomo medievale partecipava a due mondi diversi ma non per questo inconciliabili: vi era un dimensione “normale” nella quale le persone erano sottoposte a determinate regole e ad un preciso sistema di valori, mentre in alcuni momenti particolari, partecipava a celebrazioni di tipo carnevalesco che, a volte, potevano durare anche intere settimane.

Durante questi eventi, la realtà quotidiana veniva ribaltata e tutti vivevano in un “mondo alla rovescia”.

In queste circostanze vi era l’abolizione di tutti i rapporti gerarchici e si costituiva un nuovo rapporto tra gli uomini: il senso di estraneità con gli altri spariva e l’uomo ritornava ad essere se stesso, un essere umano fra gli esseri umani.

Durante queste feste, un elemento fondamentale era il ribaltamento delle gerarchie esistenti ed uno degli artifici usati a tal fine era l’elezione di re e regine per burla che “mantenevano la propria carica” per tutto il tempo della festa.

Nel carnevale tutti partecipavano alla festa, non vi era un palco che separava il pubblico dagli attori poiché costituiva un’ esperienza che doveva essere vissuta da tutti.

Il momento carnevalesco costituiva una fase necessaria affinché vi fosse una rinascita di tutto il mondo e, quindi, di tutti i partecipanti.

Michail Bachtin, nelle sue ricerche su “L’opera di Rabélais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medioevale e rinascimentale”, individua tre caratteristiche fondamentali del riso medievale:

  1. Era riso di festa
  2. Era un riso universale poiché tutti partecipavano e ridevano
  3. Era ambivalente, ossia conteneva in sé caratteristiche che lo rendevano gioioso ed allo stesso tempo beffardo, un contesto in cui venivano affermate le cose che poi erano immediatamente smentite.

Il riso della festa era diretto verso coloro che partecipavano e quindi ridevano anche di se stessi.

Come sintetizza Bachtin: “Il carnevale è il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l'abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù. In sostanza esso rappresenta il mondo alla rovescia, il momento del rinnovamento e della rinascita in contrapposizione alla morte e alla corruzione”. 

Se anche noi “moderni” riuscissimo ad esempio a bilanciare le preoccupazioni con dei sani, goliardici e ironici momenti carnevaleschi – “carnevale” viene da “carne levare”, sollevare la carne, il corpo e quindi anche lo spirito, dalle tribolazioni del quotidiano – faremmo veramente del bene a noi stessi e agli altri: andremmo al lavoro cantando o ballando come se intorno a noi non ci fosse nessuno, finalmente liberi da giudizi e condizionamenti esterni.

La grande lezione dell’umorismo insegna che è sempre possibile pervenire ad una nuova o rinnovata concezione del lavoro e della vita, svincolandosi dalle negatività del contesto in cui si opera e si vive.

L’incertezza, la precarietà, la sofferenza sono sempre esistite e continueranno ad esistere.

Ogni specie sopravvive grazie ad una selezione di caratteristiche che nel tempo gli consentono l’adattamento e la reattività nei confronti degli ambienti esterni in continua evoluzione.

Per quanto ci riguarda, la risorsa dell’umorismo non fa eccezione a questa legge darwiniana:
superare uno stato emotivo difficile, stemperare la visione negativa di un evento, allontanarsi dal punto focale di una tensione per meglio osservarla e comprenderla, sdrammatizzare un problema, stimolare endorfine ed anticorpi, sono tutte risorse che fin dalla preistoria ci aiutano non solo a sopravvivere ma anche e soprattutto a progredire.

L’umorismo non costituisce eccezione neanche alla regola formativa che vede le risorse, analogamente alle competenze, come campi da coltivare e sviluppare per raccogliere buoni frutti a livello umano e professionale.

L’umorismo tuttavia non è da considerare solo una risorsa psicologica e comunicativa ma anche una chiave interpretativa della realtà legata ad una particolare visione del mondo e della vita.

Esistono persone che ammiriamo per la loro gioia di vivere, per l’entusiasmo che trasfondono nelle attività che svolgono, per la loro capacità di accettare serenamente i limiti imposti dalla natura.

Sono persone da modellare, esseri umani a cui ispirarsi per migliorare la qualità dei nostri pensieri, sentimenti ed emozioni.

Sono persone che vivono ogni giorno la giovinezza dello spirito superando gli stereotipi legati all’età e/o i condizionamenti sociali e creando uno stato della mente positivo e saggiamente gaudente.

Non sto parlando della “cubista di cinquanta anni” o dell’uomo eterno Peter Pan, poiché spesso tali figure rappresentano solo delle caricature della giovinezza.

Per una nuova concezione del lavoro e della vita

 

Mi riferisco piuttosto a coloro che, nella loro esistenza, hanno interiorizzato e messo in pratica alcune fondamentali riflessioni sul valore del tempo della vita e superato una volta per tutte il diffusissimo pregiudizio dell’età anagrafica come criterio identificativo di giovinezza o vecchiaia, competenza o incompetenza, persona navigata o priva di esperienza.

  1. Finché siamo sotto lo stesso cielo, siamo tutti contemporanei
  2. L’uomo non smette di giocare perché invecchia, invecchia perché smette di giocare
  3. “Ci vuole molto tempo per diventare giovani e poco tempo per invecchiare
    (Pablo Picasso)
  4. “Voglio invecchiare cinque minuti prima di morire”
    (Franco Califano)
  5. “L’uomo è interamente uomo solo quando gioca”
    (Friederich Schiller)
  6. “Guardate questi visi del passato: li avrete visti mille volte, ma non credo che li abbiate mai
    guardati. Non sono molto diversi da voi, vero? Vedete, questi ragazzi ora sono concime per i fiori. Ma se ascoltate con attenzione li sentirete bisbigliare il loro monito. Coraggio, accostatevi! Ascoltate! Sentite? Carpe…carpe diem…cogliete l’attimo ragazzi…rendete straordinaria la vostra vita!”
    (Robin Williams nel ruolo del Professor Keating ai suoi allievi nel film “L’Attimo fuggente”, 1989)
  7. DISCORSO DEL GENERALE MAC ARTHUR AI CADETTI DELL’ACCADEMIA MILITARE DI WEST POINT (Stato di New York, USA, 1945)

“La giovinezza non è un periodo della vita
essa è uno stato dello spirito,
un effetto della volontà,
una qualità dell’immaginazione,
un’intensità emotiva,
una vittoria del coraggio sulla timidezza,
del gusto dell’avventura sull’amore del conforto.
Non si diventa vecchi per aver vissuto un certo numero di anni,
si diventa vecchi perché si è abbandonato il nostro ideale.
Gli anni aggrinziscono la pelle,
la rinuncia al nostro ideale aggrinzisce l’anima.
Le preoccupazioni, le incertezze, i timori e i dispiaceri
sono i nemici che, lentamente, ci fanno piegare verso la terra
e diventare polvere prima della morte.
Giovane è colui che si stupisce e si meraviglia,
che domanda come un ragazzo insaziabile: “E dopo?”
che sfida gli avvenimenti e trova la gioia nel gioco della vita.
Voi siete così giovani come la vostra fede,
così vecchi come la vostra incertezza,
così giovani come la vostra speranza,
così vecchi come il vostro scoramento.
Voi resterete giovani fino a quando resterete ricettivi,
ricettivi a ciò che è bello, buono e grande,
ricettivi ai messaggi della natura,
dell’uomo,
dell’infinito.
Se un giorno il vostro cuore dovesse essere morso dal pessimismo
e corroso dal cinismo,
possa Dio aver pietà delle vostre anime di vecchi”

Un giorno Voltaire affermò ironicamente che “Quando colui che ascolta non capisce colui che parla e quando colui che parla non sa cosa stia dicendo, questa è filosofia”.

Parafrasando il motto di spirito del filosofo francese potremmo sostenere che “Quando il collaboratore che legge non capisce il manager che scrive e quando il manager che scrive non sa cosa sta scrivendo, questa è letteratura manageriale!”.

Ma si, divertiamoci, lasciamo che la nostra allegria fluisca attraverso tutto il nostro essere, perché una risata salverà il bambino e l’adulto che sono in noi dall’invecchiamento dell’anima.

In questo senso, mi piace pensare che sia proprio questo lo scopo ultimo della nostra esistenza terrena: consegnare all’eternità un’anima divertita ed appagata nell’ aver offerto al mondo il suo contributo di gioia e saggezza.

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