Una centrale nucleare sotto un giardino fiorito

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Una centrale nucleare sotto un giardino fiorito

26 aprile 1986. Chernobyl, Ucraina, confine con la Bielorussia.

Fino a poco prima della mezzanotte di quel giorno, poche persone sulla Terra sapevano dell’esistenza di quella località.

Tutto il mondo la conobbe improvvisamente quando il reattore numero 4 della locale centrale nucleare, entrato in zona di instabilità, emise una potenza di circa 100 volte superiore a quella normale.

In pochi minuti la temperatura del reattore raggiunse i 700°, provocando l’esplosione della centrale e la dispersione di tonnellate di materiali radioattivi, per la maggior parte residui di combustione atomica.

Le conseguenze per persone e ambienti – la nube radioattiva contaminò buona parte dell’Europa, Italia compresa – furono, a dir poco, disastrose.

Il 1 novembre del 2000, con una cerimonia ufficiale, il presidente ucraino Leonid Khuchma premette personalmente l’interruttore per lo spegnimento del reattore n° 3, cessando definitivamente ogni attività nell’intero impianto.

Esiste una piccola – ma non per questo meno pericolosa! – Chernobyl in ognuno di noi sotto l’apparente tranquillità del giardino fiorito della nostra quotidianità, delle abitudini e degli stili di vita.

Il ricercatore canadese Hans Selye nel 1950 ha dato a questa centrale sotterranea un nome destinato a contraddistinguere, nel bene e nel male, la condizione esistenziale dell’uomo moderno: stress.

Secondo Alberto Oliverio, “lo stress può essere definito come una condizione in cui esiste un turbamento dell’omeostasi dell’organismo, vale a dire del suo equilibrio, a seguito di qualsiasi stimolo o fattore, interno o esterno. Il nostro organismo è sottoposto di continuo a stimoli stressanti come il caldo, il freddo, l’esercizio fisico, la privazione di cibo, i rumori, i tempi di lavoro troppo contratti, la competizione, gli insuccessi, le dinamiche emotive…”.

Nel corso di oltre mezzo secolo di studi e ricerche, abbiamo compreso bene due aspetti fondamentali dello stress:

  1. Lo stress non è uguale per tutti – è una reazione/risposta soggettiva agli stimoli esterni/interni
  2. Lo stress non è uguale nemmeno a se stesso: esiste uno stress benefico, detto eustress, ed uno patologico, indicato tecnicamente con il termine distress.

Per una comprensione più efficace del concetto di stress, è opportuno integrare i fattori psicofisiologici con quelli relativi alla sfera ambientale e culturale.

“Lo stress, come esperienza di disagio nell’adattamento alla realtà, non è mai esperienza di pensiero, ma esperienza di comportamento, da dove risale per arrivare alle emozioni e al pensiero.

Il comportamento è la condotta che si assume nella relazione con l’ambiente con cui si è in contatto”.

Abbiamo chiare le distinzioni da un punto di vista intellettuale ma siamo meno capaci di gestirle nella quotidianità.

Distinguere le due modalità di reazione significa concretamente sfruttare l’eustress – la tensione adrenalinica produttiva o “energia nucleare pulita” – e decapitare il pietrificante mostro del distress fonte di pericolosa “radioattività”.

Ecco il motivo per cui ogni giorno tante piccole Chernobyl personali esplodono determinando molti danni a livello psicosomatico e nei rapporti con gli altri.

Alcuni manager entrano spesso in “zona di instabilità” e l’umorismo può rivelarsi il tasto giusto per disattivare il reattore prima che sia troppo tardi.

L’unico aspetto critico della faccenda è che non si tratta di un bottone rosso ben visibile: la consolle emotiva è complessa, a volte è inserito come un anonimo pulsante rimasto fino ad ora inutilizzato.

Occorrono, in definitiva, una grande preparazione ed un costante “allenamento” per diventare esperti ricercatori nel laboratorio sempre attivo delle emozioni e dei sentimenti.

Un’indagine condotta verso la metà degli anni ’90 dall’Istituto di medicina psicosomatica Riza su un campione di 560 impiegati – dai 25 ai 55 – mise in evidenza i seguenti “tristi” numeri:

“Per 7 persone su 10 il proprio ambiente di lavoro è asettico, troppo serio e severo: infatti solo il 12% degli impiegati ride spesso, il 17% ogni tanto, mentre per gli altri una sana risata è un avvenimento eccezionale.

Il 25% afferma di riconquistare il sorriso solo durante la pausa caffè, il 29% mentre si avvicina l’orario di uscita e il 18% quando in ufficio qualcuno fa una gaffe.

La risata scoppia di più con le persone esterne all’azienda che con i colleghi; con il proprio capo, poi, è rara anche perché, a detta degli intervistati, egli non ride mai (24 %) o raramente (32%).

Chi, invece, è di buon umore, meglio che si metta al riparo dalle critiche: per il 24% degli impiegati si tratta di gente poco seria, per il 16% poco affidabile e per il 14% sono persone che non hanno voglia di lavorare”.

Fonte: Articolo de “Il Messaggero”, maggio 1995.

A distanza di oltre un decennio, qualcosa è cambiato in meglio anche se rimane abbastanza stabile la percezione delle persone nei confronti di un management che fatica a lasciarsi andare al sorriso, come evidenziato anche nella nostra ricerca.

Eppure, come argomenta Gianfranco Rebora, “I manager possono trarre vantaggio dalla propensione a evocare e mettere in gioco schemi di comportamento apparentemente estranei ad una logica d’impresa”.

Ecco un’altra interessante angolatura da cui osservare e comprendere l’umorismo in rapporto al management: l’attitudine ad uscire fuori dagli schemi.

Qualcuno crede che pensare e/o agire fuori dagli schemi significhi ostentare pensieri e comportamenti anticonformisti od indossare un maglione quando tutti gli altri sono in giacca e cravatta.

In realtà, la capacità di uscire fuori dagli schemi è il precipitato di elementi complessi quali l’autostima, la creatività, l’umorismo ed il fascino di una personalità non omologata.

Una centrale nucleare sotto un giardino fiorito

 

In inglese tale capacità si traduce con l’espressione: “Thinking out of the box”, pensare fuori dalla scatola.

La “scatola” equivale psicologicamente al nostro concetto di “gabbia del pregiudizio e/o dell’esperienza”: quando rimaniamo “chiusi” nei nostri pregiudizi, negli stereotipi o nell’automatismo che filtra tutti gli eventi esterni attraverso l’esperienza soggettiva, diventiamo “prigionieri” del nostro stesso punto di vista.

Tale situazione ci preclude il confronto con il nuovo, compromette la capacità di valutare oggettivamente fatti e persone ed ostacola in definitiva la crescita umana e professionale.

Secondo Terry Warner, Fondatore dell’Istituto Arbinger, il problema della scatola riguarda “l’autoinganno” o ciò che originariamente era chiamato “resistenza”.

La questione si può esprimere in questi termini: come è possibile che le persone allo stesso tempo (1) creino i loro stessi problemi, (2) siano incapaci di capire che loro stessi creano i loro problemi ed ancora (3) resistano ad ogni tentativo di aiutarli a fermare la creazione di quei problemi?

Questa criticità è al centro del fallimento professionale di persone ed organizzazioni.

E’ la ragione per cui, di fatto, molte situazioni problematiche non hanno una vera e propria causa: sono autoinganni o, come qualcuno preferisce indicarli, falsi problemi generati da una amplificazione o distorsione percettiva della realtà.

Demostene asseriva che le persone credono vero ciò che desiderano essere vero; la nostra mente tira l’acqua al suo mulino nel senso che non sopporta contraddizioni e dissonanze.

In tale prospettiva, giustificazioni, autoconvincimenti, razionalizzazioni ci servono psicologicamente a fornire rassicurazioni sul nostro operato, a prescindere dai risultati ottenuti.

Un classico esempio di scatola è quando ci creiamo degli alibi per “giustificare” il mancato raggiungimento di un risultato: “Non dipende da me ma è il mercato, il cliente, l’azienda, gli altri, la crisi economica, il governo…” L’umorismo aiuta a rompere questo pericoloso schema mentale, favorendo l’introspezione necessaria e la messa a confronto del proprio punto di vista con quello di altri .

Il vero problema consiste dunque nella difficoltà di “uscire dalla scatola”.

Nella vita organizzativa di tutti i giorni, è possibile osservare diversi manager inscatolati.

Ecco un identikit:

  • Agiscono in dissonanza con se stessi, ossia compiono atti contrari a ciò che in realtà sentono
    “di pancia”
  • Giustificano sistematicamente il proprio comportamento e/o quello dell’azienda anche di fronte ad una evidenza contraria
  • Tendono ad utilizzare l’apparenza come criterio di giudizio
  • Considerano le persone mere risorse da sfruttare
  • Manifestano manie di perfezionismo
  • Non “credono” nella Formazione manageriale

Dal momento che, alla lunga, tali stressanti atteggiamenti contribuiscono all’aumento della pressione arteriosa, l’umorismo consiglia a questi manager: “Fuori dalle Scatole!”.

Pensare ed agire fuori dagli schemi è un amalgama di spirito del divertimento, curiosità, spinta all’innovazione, fantasia e creatività. Questa miscela propulsiva è come l’ idrogeno per un motore: produce energia pulita, ecologica, vitale.

Divertirsi significa provare gusto per le attività che si svolgono ed è una componente essenziale di uno stile di leadership orientato a coinvolgere emotivamente le persone.

A questo proposito, propongo un commento di Ivan Scalfarotto: “Il divertimento è la parte che spinge la persona a trovare la motivazione nelle cose che crea, a svolgere il proprio lavoro con entusiasmo e a “godere” del proprio operato; elementi introvabili sui manuali, ma nascosti in ognuno di noi e che l’umorismo e l’emozione riescono a dischiudere rendendo visibile questa forma di energia fortissima anche nelle relazioni esterne”.

Un Vice Direttore Generale di una banca, durante la presentazione di un ambizioso progetto di sviluppo commerciale, aprì il suo intervento con le seguenti affermazioni:

“Diffido di chi mi dice: “Io mi diverto lavorando”, perché io personalmente mi diverto nel fare altre cose! (Detto con tono malizioso, n.d.A.).

Credo che il lavoro sia sempre legato alla fatica (lavoro, dal latino “labor”, fatica, sforzo, n.d.A.), ma tuttavia penso che possa essere reso creativo e stimolante, come mi auguro possa essere questo progetto”.

Pienamente d’accordo. Divertimento come termine viene dal latino “devertor” che significa “cambio strada”, “compio una deviazione rispetto ad un percorso prestabilito”.

A mio avviso, il divertimento nel lavoro equivale a sviluppare un orientamento alla ricerca sistematica di stimoli e di creatività nell’attività che ognuno svolge nel proprio settore; è mantenere nel tempo uno stato mentale positivo che trasforma in arte il mestiere che si esercita, tenendo presente la necessaria fatica che comunque ogni lavoro comporta.

Da un punto di vista psicologico, tale approccio propositivo nei confronti della professione svolta è il risultato consapevole ed intenzionale dei seguenti atteggiamenti:

  1. Nei momenti di frustrazione, mi sforzo di trovare gli aspetti positivi della situazione lavorativa in cui mi trovo e li utilizzo come leva motivazionale per andare avanti
  2. La routine è una sensazione soggettiva: dipende da me fare in modo che ogni giorno sia diverso dall’altro
  3. Se mi accorgo di essere in disarmonia con le persone, il contesto e/o con la tipologia di lavoro, mi prefiggo l’obiettivo di cambiare senza generare conflittualità dal momento che tale vissuto è un mio problema
  4. Evito di attribuire a fattori esterni – L’azienda, le altre persone, la congiuntura economica, il governo – la causa della mia insoddisfazione: mi impegno in prima persona a trovare soluzioni efficaci di cambiamento.
  5. Mi impegno ad andare incontro agli altri e a comunicare perché le persone sono la vera fonte di stimolazione sul lavoro
  6. Anche io, attraverso il lavoro che svolgo, offro un servizio alla comunità: voglio quindi dare il meglio di me, tenuto conto anche del fatto che sono pagato per farlo!

Oggi le persone che in questo senso si “divertono” sul lavoro o che addirittura si entusiasmano per quello che fanno sono rare come le oasi in un deserto.

La maggior parte fatica ancora a scrollarsi di dosso il retaggio culturale del tempo dissociato: “Tempo di lavoro” vs. “Tempo libero”; oppure molti sviluppano un’insana tendenza a lamentarsi di tutto e di tutti senza però fare nulla per cambiare la situazione.

La liberalizzazione dei mercati, la flessibilità dei rapporti di lavoro, la disponibilità di maggiori risorse per il tempo personale, lo sviluppo tecnologico, rappresentano le condizioni attraverso le quali l’epoca attuale ha tentato di “liberare” il tempo lavorativo per restituire più vita da vivere alle persone.

In parte un risultato apprezzabile è stato raggiunto dal momento che oggi molte più persone effettivamente vivono più creativamente gli altri aspetti dell’esistenza ma la medaglia ha sempre due facce: stiamo assistendo ad una frammentazione e polverizzazione delle esperienze lavorative, ad una dequalificazione delle professionalità delle persone, a pressioni sui risultati agite con modalità “fiato sul collo”, al caos dei marcati identificato addirittura come la “nuova regola” di cui tener necessariamente conto.

Ecco il motivo per cui sotto molti giardini fioriti è costantemente presente il rischio deflagrazione: essere abili nel rilevare i primi segnali di “fughe radioattive” è una risorsa fondamentale a tutti i livelli.

Certo, a volte un’esplosione, nonostante l’impegno a tenere tutto sotto controllo, è naturale che avvenga, credo che questo sia parte integrante della nostra condizione umana.

L’importante è sviluppare la capacità di riprendersi, di riaversi dalle crisi senza lasciare troppi strascichi emotivi.

Saper accettare con il sorriso questa nostra condizione umana, a volte anche troppo umana, è un raro segnale di intelligenza emotiva.

Una riflessione per concludere…

<<IL BEN DI STOMACO>>

“Si, ho l’ulcera. Ma forse è un bene.

Sai qual è la mia filosofia?

Certo è importante farsi due risate, non c’è discussione; ma devi anche un po’ soffrire, perché altrimenti non apprezzi più le due risate”

Woody Allen a Mia Farrow

Chi sa riconoscere ed elaborare la sofferenza – dalle proprie ed altrui esperienze – apprezza la salute come la sola vera ricchezza a cui mirare.

Chi sa riconoscere ed elaborare il fallimento – dalle proprie ed altrui esperienze – sviluppa molte più risorse per conseguire il successo rispetto a chi nasconde la testa sotto la sabbia o a chi reagisce aggressivamente.

Come il saggio ricorda: “Non sono nulla se mi considero, ma molto se mi confronto”.

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