Cambiare le parole per cambiare mentalita'

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Cambiare le parole per cambiare mentalita'

“Occorre far attenzione alle trappole che il linguaggio ci prepara perché il mondo delle parole è caratterizzato da arbitrarietà e da inadeguatezza rispetto al mondo delle cose”

John Langshaw Austin (1911 – 1960)

Il potere delle parole

“Siamo uomini, non caporali!” diceva il grande Totò.

Noi, parafrasandolo, potremmo ribadire che “Siamo persone, non risorse umane!”.

Il passaggio da “risorse umane” a persone inizia proprio cambiando le parole.

Non è una questione soltanto di formalismo linguistico ma di sostanza concettuale che ha un impatto diretto sulla realtà.

Perché cambiare le parole? Perché il potere delle parole è immenso.

Politici, militari, religiosi e dittatori di ogni tempo e luogo lo sanno bene. La parola non è soltanto un “flatus voci” od un qualcosa che “vola” rispetto al segno scritto che “rimane”.

Basti pensare a tutti i discorsi dai pulpiti, dai palchi, dalle tribune e dai balconi che hanno fatto, nel bene e nel male, la Storia.

Possiamo ricordare anche l’uso rivoluzionario della parola nella “talking cure” di Sigmund Freud. In ogni caso, la consapevolezza di tale “potere” vanta lontane origini.

Ventiquattro secoli fa Gorgia, sofista della Magna Grecia, affermò che:

“(...) la parola è un gran dominatore che, con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmare la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà”.

(Dall’ “Encomio di Elena”, edito dalla casa editrice la Nuova Italia nel 1967)

Nel pantheon dell’antica Grecia, Peithò è una divinità onnipotente che corrisponde al potere della parola sugli altri. Peithò dispone di “sortilegi dalle parole di miele”, ha il potere di ammaliare, conferisce alle parole la loro magica dolcezza e risiede sulle labbra dell’oratore. 4

A proposito di oratori, Cicerone era molto attento alla “vis verborum” dei suoi discorsi, vale a dire a cogliere e trasmettere l’esatto significato delle parole che utilizzava.

A titolo esemplificativo, rievochiamo una delle sue celeberrime invettive:

“Fino a quando, Catilina, abuserai della pazienza nostra?”.

Le parole, dunque, non designano soltanto oggetti ma definiscono anche stati d’animo, sono il veicolo principale di idee, concezioni, significati relazionali.

Le parole non sono solo parole ma rappresentano lo schermo privilegiato sul quale noi proiettiamo le nostre rappresentazioni del mondo o l’articolazione nella quale riproduciamo i suoni che provengono dalla vita.

Il linguaggio – verbale ma anche gestuale ed espressivo – diventa così il mezzo o addirittura il cordone ombelicale che ci lega psicologicamente alla nostra esistenza.

Qualifichiamo o squalifichiamo i rapporti con noi stessi e con gli altri attraverso le parole. In un certo senso, noi siamo le parole che utilizziamo, trattiamo con gli altri o ci facciamo trattare dagli altri attraverso le parole che scegliamo di pronunciare in quella data circostanza.

Probabilmente, è corretto affermare che, soprattutto in determinati contesti e momenti, “la parola ferisce più della spada”.

Il filosofo del linguaggio Alfred Julius Ayer (1910 – 1989) affermò che “La realtà è condizionata dal nostro modo di descriverla e che sta a noi decidere quale metodo impiegare, cosicché, in un certo senso, noi non scopriamo propriamente, ma determiniamo come il mondo è”.

(“Linguaggio, verità e logica”, 1936).

La scelta e l’uso delle parole risultano quindi fondamentali non solo per scoprire/descrivere il mondo ma addirittura per trasformarlo e costruirlo a nostra immagine e somiglianza, compresa la nostra coscienza.

Tuttavia, il mondo e la sua storia sono in continua evoluzione per cui anche i linguaggi, in modo speculare, ne possono seguire le traiettorie.

Portiamo alcuni esempi, per capire: nell’arco degli ultimi quindici – venti anni abbiamo vissuto una serie di “passaggi linguistici” importanti, che hanno rappresentato il chiaro segnale di una evoluzione positiva, di progresso psicologico e sociale rispetto ad alcune specifiche situazioni.

Alcuni tra i passaggi più significativi sono stati:

Da “mongolismo/mongoloide” a “Sindrome di down/portatore della Sindrome di Down” Da “handicappato” a “Persona diversamente abile”

Da “Cieco” a “Persona non vedente”

Da “razza” ad “etnia”, per proseguire con “cultura etnica” Da “bidello” a “Collaboratore scolastico”

Da “personale paramedico” a “Infermiere professionale” Da “spazzino” o “netturbino” a “Operatore ecologico” Da “preside” a “Dirigente scolastico”

Da “paziente” ad “Utente/Cliente” e, ancora meglio, a “Cittadino”

Da “padrone” o “principale” a “Imprenditore/Titolare d’Impresa” – anche se ancora oggi, in diversi casi, la figura del proprietario di un’impresa viene percepita e soprattutto vissuta ancora come “il padrone”.

Un passaggio in negativo è stato invece quello da “Personale” a “risorse umane”.

Qualcuno potrà obiettare che l’espressione “risorsa umana” va letta in un’accezione positiva, come appunto una risorsa, qualcosa di prezioso cui poter fare riferimento.

Il problema dell’uso delle parole nella comunicazione è quello della sovrapposizione del campo semantico con quello psicologico, vale a dire quanto il significato “oggettivo” o letterale di un termine venga vissuto bene/accettato/compreso nel campo psicologico o, se preferite, nella mappa mentale di chi riceve la comunicazione.

Per quanto mi riguarda, ad esempio, preferisco essere considerato e nominato sempre come “cittadino” e non come “consumatore”, come anche sul lavoro desidero essere considerato come persona e non come una risorsa umana.

Riepilogando, il peso delle parole nel linguaggio e nelle comunicazioni si esprime ad un duplice livello:

  1. Il campo semantico “oggettivo” in rapporto al campo psicologico soggettivo – significato del termine in rapporto al vissuto del termine.
  1. L’influenza delle parole sull’immaginario collettivo, nelle rappresentazioni, nelle relazioni e nei vissuti sociali

Riguardo il primo punto, è utile ricordare che ogni parola possiede un suo campo semantico specifico – comprendente anche l’etimologia del termine – per cui possiamo affermare che, in questa prospettiva e con buona pace dei dizionari, non esistono “sinonimi e contrari” ma parole diverse che, pur nella loro contiguità semantica, esprimono sfumature di significato emotivo e psicologico diverse.

A proposito invece del secondo punto, Peter L. Berger e Thomas Luckmann5 nel loro libro “La realtà come costruzione sociale” (1966) sostengono che:

“La vita quotidiana è soprattutto vista con il linguaggio e per mezzo del linguaggio che condivido con il mio prossimo.

Una comprensione del linguaggio è quindi essenziale per ogni comprensione della realtà della vita quotidiana”.

In un altro passo del libro, i due sociologi della conoscenza, sottolineano come “In quanto sistema di segni, il linguaggio ha la qualità dell’oggettività.

Io incontro il linguaggio come una fattualità esterna a me stesso e coercitiva nei suoi effetti su di me”.

La citazione, tradotta in pratica, significa che il linguaggio e quindi le parole rappresentano delle “entità esterne oggettive” che possono esercitare un’azione “coercitiva” nei nostri confronti ed anche a volte manipolativa.

Tanto per esemplificare ancora, ve la ricordate la scena dei Promessi Sposi in cui Don Abbondio, “gentilmente” dissuaso dai “bravi” a celebrare il matrimonio tra Renzo e Lucia, incontra il povero Renzo che lo raggiunge proprio per chiedergli ragguagli sulle prossime nozze?

Il prelato sommerge il giovane di una sequela di “impedimenti” – pronunciati in latino – da verificare secondo il diritto canonico.

Dopo i primi “Error, Conditio e Votum”, Renzo lo interrompe bruscamente con la famosa battuta: “Si piglia gioco di me? Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?”.

Cambiare le parole per cambiare mentalita'

Il “latinorum” di Don Abbondio è il simbolo per eccellenza dell’uso manipolativo del linguaggio che il potere costituito, sia esso religioso, politico o familiare, ha da sempre esercitato nei confronti della persone povere, ignoranti o semplicemente in condizioni di subalternità rispetto all’istituzione di appartenenza – Chiesa, Stato, Azienda, Famiglia.

Basti ricordare il linguaggio della propaganda politica nel corso della storia per capire quanta manipolazione e distorsione venga messa in atto attraverso le parole.

Ancora oggi, troviamo gente impegnata a farci credere che Icaro è precipitato perché soffriva di vertigini.

Per chi gestisce il potere, cambiano i tempi e forse le modalità ma la finalità della comunicazione rimane sempre la stessa, quella di confondere le idee alle persone, anestetizzare le coscienze e colmare con parole astratte o retoriche il vuoto abissale dei significati e dei contenuti reali.

In qualche caso, assistiamo anche a prese in giro linguistiche che utilizzano termini come “scalone”, “tesoretto”, “forfettone”, “bipartisan” oppure a tentativi di seduzione concettuale attraverso le parole “welfare” o mutui “subprime”.

Altre parole, come ad esempio Cambiamento, Globalizzazione, Flessibilità, Crescita, Competitività, Precarietà, vengono svuotate dei loro significati ed immesse in un processo di ideologizzazione il cui fine è la produzione di comodi alibi da utilizzare per “motivare” l’impossibilità di agire e/o di trovare soluzioni adeguate oppure per “giustificare” lo stato delle cose o semplicemente come “sillogismo introduttivo” – scontato e banale – di seminari e convegni.

Ecco un esempio di come un relatore ha di recente aperto un suo intervento sul tema della sicurezza nei luoghi di lavoro.

“Siccome tutto cambia molto velocemente e noi facciamo parte del tutto, allora dobbiamo tenerci pronti a gestire il cambiamento”.

Le matrici dei significati subiscono dunque processi di svuotamento, banalizzazione e sterilizzazione comunicativa, trasformando le parole in slogan o etichette usa e getta.

Come esseri umani, il linguaggio ci serve dunque per comprendere il mondo, interpretarlo, comunicarlo ed infine interiorizzarlo.

Interiorizzare non significa assorbire acriticamente!

Ecco il motivo per cui non possiamo affidare passivamente le nostre menti alla televisione, ai politici e a tutti coloro che “ci provano” a manipolare e a distorcere il senso delle parole e quindi della vita stessa.

Il filosofo contemporaneo Jurgen Habermas ci mette in guardia: “Se (...) la comunicazione politica di massa si restringe, diventando ‘infotainment, divertimento e personalismi, e perde il suo carattere discorsivo, la politica degenera, diventando una baruffa di potere e di combriccole non controllate. La berlusconizzazione del pubblico è la fine della democrazia”. 6


Chiamare le persone “risorse umane” – e trattarle come tali – è l’ultimo effetto manipolativo e distorcente del linguaggio del potere in ordine di apparizione sulla scena della storia.

Qualcuno denuncia le situazioni attuali parlando addirittura di “schiavi moderni” riferendosi a sempre più numerose categorie di lavoratori nel mondo, sfruttati appunto come gli schiavi dell’antichità o come quelli della più recente storia dei Conquistadores spagnoli 7 e delle piantagioni di cotone americane invase dai neri d’Africa.

La piaga inguaribile del lavoro minorile, il cancro dello sfruttamento della prostituzione, legato anche alla droga, il traffico ininterrotto di immigrati clandestini, sono elementi di un quadro dalle tinte molto fosche, ben appeso alla parete della nostra consapevolezza ma di cui nessuno sa come rimuoverlo o modificarlo nella sostanza.

Potremmo anche ipotizzare la deliberata volontà di qualche potente del mondo di lasciarlo appeso per motivi economici e politici.

Non mi meraviglierei se fosse così: il volto diabolico del potere si riflette sempre nello stesso specchio dell’abuso e della sopraffazione, al fine di guadagnarci sempre qualcosa.

Secondo Ken Loach, regista del film “In questo mondo libero” (2007) gli “schiavi moderni” sono tali perché “Non hanno catene ai piedi ma sono costretti a scelte umilianti” 8 .

Un’umiliazione che inizia dall’etichetta “risorse umane” e dalle altre parole o aggettivi più o meno “squalificativi” come:

  • “Manodopera” “Massa Manovra” “Unità”
  • Forza lavoro” “Interinali”
  • “Intermittenti” “Stagionali”
  • “Capitale umano”
  • “Atipici”
  • “Esternalizzati”
  • “Sotterranei” – riferito a tipologie di lavoratori come ad esempio i minatori
    “Minori” – a proposito:basta chiamarli minori, iniziamo a chiamarli bambini o ragazzi
  • “Quote rosa” – le donne meritano molto di più di un’espressione a metà strada tra le
    freddezza di un termine statistico (“quote”) e la banalità stereotipata di un colore (“rosa”)

Ricordo ancora il mio sentimento misto di ilarità e perplessità quando nel 1997 fu varato il Pacchetto Treu che portava il lavoro interinale in Italia e che divideva ufficialmente i lavoratori in “tipici”e “atipici”.

Con la Legge Biagi fu poi completata l’importazione concettuale dalle culture angloamericane di altri “pacchi legislativi” i cui nomi oscillavano tra l’esotico/seducente del “Job sharing”, “Job on call” e l’avicolo “co.co.co” e “co.co.pro”.

Il tentativo – di per sé apprezzabile – di sprovincializzare l’Italia, di togliere il gesso al mercato del lavoro e soprattutto debellare la piaga del lavoro nero è finito però nel bagno di sangue della precarizzazione di centinaia di migliaia di lavoratori.

I “pacchi” hanno avuto successo solo nella trasmissione televisiva “Affari tuoi”, mentre invece per quanto riguarda il lavoro ora sono “Affari nostri”!

La flessibilità con caratteristiche culturali diverse dalle nostre ha creato molti più problemi di quanti ne abbia risolti, semplicemente perché il “Sistema Mercato Italia” è culturalmente molto diverso da quello dell’Inghilterra o degli Stati Uniti.

Il vero dramma è che la stragrande maggioranza dei personaggi dell’establishment politico- finanziario non vuole riconoscere e/o ammettere che le ultime generazioni – ma non solo – hanno dei seri problemi sul versante lavorativo e previdenziale. Quello che colpisce è l’assoluta mancanza di empatia, di ascolto e l’indifferenza delle “caste” nei confronti di tante persone prigioniere di stati di disagio e malessere.

Ormai il libro preferito dalle generazioni dei mille euro al mese è diventato “Le mie pigioni”.

Chi oggi ha 20, 30 o anche 40 anni non solo deve sobbarcarsi il peso pensionistico della Riforma Dini e provvedere a saldare il debito causato dai bagordi delle precedenti legislature ma anche sbarcare il lunario con la paura quotidiana di perdere il lavoro o sopravvivere ogni giorno a se stessi, tra un contratto a progetto od un lavoro mascherato da stage.

Tra l’altro, non ci ha salvato più di tanto né il fatto di essere nell’Unione Europea né tanto meno abbiamo saputo cogliere le opportunità della globalizzazione.

Anzi, a questo proposito, stiamo diventando un paese sempre più economicamente colonizzato.

Tuttavia, c’è chi sostiene che “Non è colpa di Biagi”.9 Stiamo parlando del prof. Pietro Ichino, Docente Ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università Statale di Milano.

Secondo il prof. Ichino, “La percentuale di lavoro precario rispetto al totale dell’occupazione ha incominciato a crescere in Italia dalla fine degli anni ’70. La causa del fenomeno, dunque, non va cercata nella legge Biagi e nemmeno nella legge Treu del 1997.

Sono altre le cause: l’eccesso di rigidità della protezione garantita dall’ordinamento ai dipendenti pubblici di ruolo e ai lavoratori regolari delle imprese medie e grandi; l’allargarsi della forbice della disuguaglianza di produttività tra i più forti e i più deboli”.

Ichino propone anche una sua ricetta su come combattere il lavoro precario:

“Da un punto di vista legislativo proporrei una redistribuzione delle protezioni: un contratto di lavoro a tempo indeterminato per tutti, ma più flessibile (non viene specificato in cosa consisterebbe tale flessibilità, n.d.a.).

Un sistema di protezione efficace del lavoratore nel mercato del lavoro, capace di dare a chi si rivela più debole ed in difficoltà un sovrappiù di servizi di informazioni, formazione professionale e assistenza alla mobilità”.

Mi auguro che l’ espressione “assistenza alla mobilità” significhi soldi o quantomeno supporto operativo nel trovare un altro lavoro, altrimenti soltanto con le informazioni e la formazione le persone non riescono a pagare mutui e bollette.

Se il volto del mercato del lavoro in Italia è ricoperto dai brufoli della precarietà, non possiamo pensare di risolvere il problema solo con le pur necessarie pomate – le “protezioni” ai più deboli di cui parla Ichino; qui ci vuole una cura drastica per disintossicare il fegato, vale a dire che bisogna intervenire direttamente sui sistemi legislativi, formativi e sociali del Paese, dal momento che, chi più chi meno, siamo tutti a rischio precarietà.

I problemi dell’Italia possono essere risolti non tanto chiedendosi “di chi è la colpa” quanto piuttosto “dove sta la colpa”.

La precarietà è il risultato finale del cattivo funzionamento di più sistemi interconnessi:

  • Il sistema psicologico individuale: diverse persone che vivono la precarietà non sono sufficientemente responsabilizzate sul fatto che si devono dar da fare in prima persona per migliorare il loro stato, rafforzare l’autostima e sviluppare la necessaria combattività.
  • Il sistema familiare: genitori iperprotettivi e/o con scarse risorse psicologiche che non favoriscono l’autonomia e l’emancipazione dei figli, causando il cosiddetto “effetto bonsai” – figlio adulto ancora dentro casa.
  • Il sistema sociale: comunità che non favoriscono lo scambio affettivo e la crescita umana delle persone. Quartieri dormitorio e sobborghi pseudorurali dove la vita ruota esclusivamente intorno al megacentro commerciale.
    Soprattutto nelle grandi metropoli, oggi la distinzione tra “centro e periferia” scompare perché sostituita dalla nuova realtà del “continuo metropolitano indifferenziato”: estensioni chilometriche di case a perdita d’occhio senza saper più dove la città inizia e dove finisce.
  • Il sistema formativo: scuole, università e centri di formazione caratterizzati da bassi livelli di qualità. Il “cultural divide” cresce in modo esponenziale rispetto ad altri paesi europei. Secondo Tito Boeri, docente di Economia alla Bocconi, “Continuerà ad esserci bassa qualità della ricerca in Italia fin quando i soldi alle università verranno dati in base a criteri che non hanno nulla a che vedere con la produzione scientifica. Basterebbe cominciare a non dare più i soldi a pioggia, ma premiare gli atenei con i migliori risultati in questa valutazione”.10 Basta anche con i ricercatori negli scantinati a novecento euro al mese e soprattutto “meno centri commerciali e più centri di ricerca”, come ho già avuto modo di argomentare in un altro mio saggio.11
  • Il sistema di educazione civile: il filosofo contemporaneo Jurgen Habermas mette in evidenza la priorità per eccellenza che ogni sistema educativo dovrebbe porsi ovvero lo sviluppo dell’ethos dei cittadini, sia laici, sia religiosi. Infatti, secondo Habermas, “Non basta che i cittadini obbediscano alle leggi dello Stato per paura di punizioni. In una democrazia essi dovrebbero accettare i principi di una Costituzione perché intimamente convinti della sua bontà”.12
    Educare significa quindi sia trasmettere valori di vita civile, sia facilitare lo sviluppo dell’autonormatività, vale a dire la capacità di ognuno di disciplinare la propria liberta nel rispetto della libertà altrui.
  • Il sistema politico-legislativo: chi gestisce la “Cosa Pubblica” attraverso le leggi ha un enorme responsabilità nei confronti dei cittadini, del territorio e dell’ambiente.
    Il maestro indiano Osho Raineesh, scomparso nel 1990, affermò che “I preti ed i politici sono la mafia dell’anima”13. La frase è un po’ dura ma a volte, considerati i comportamenti di chi ha gestito o gestisce il potere derivante dalla sua posizione, viene proprio da pensarla come lui. Tuttavia ci auguriamo, per mantenere sempre il pensiero positivo e la fiducia negli altri, che il sistema politico-legislativo possa essere governato da persone sagge ed attente al bene comune di tutti i cittadini.

4 Nota di S. Natoli nel suo saggio “La salvezza senza fede”, Universale Economica Feltrinelli, Milano, II ed. 2008, ripresa da M. Detienne, “I maestri di verità nella Grecia arcaica”, Laterza, Roma-Bari, 1977

5 Citati da Alberto Izzo, “Storia del pensiero sociologico”, Il Mulino, Bologna, 1991

6 Intervista di Claudia Hassan, “Anche la fede ha un limite”, L’Espresso del 3 gennaio 2008

7 Ai Conquistadores e ai coloni spagnoli fu concessa, ad esempio, l’ “Encomienda”, vale a dire il diritto di sfruttare il lavoro degli Indios

8 Quotidiano free press E polis Roma del 27 settembre 2007

9 In un intervista di Angela Iantosca nella rivista omaggio “Acqua & Sapone”, febbraio 2008

10 Articolo “Gioventù scoppiata”, L’Espresso, 3 gennaio 2008

11 Cfr. Stefano Greco, “La formazione come palestra della professionalità. Guida pratica all’utilizzo delle attività formative per le persone e le organizzazioni”, Franco Angeli, Milano, 2007

12 In un’intervista di Claudia Hassan, “Anche la fede ha un limite”, L’Espresso, 3 gennaio 2008

13 Osho Raineesh , “La visione tantrica”, Edizioni Riza, Milano, 1986

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