Curiosi paradossi contemporanei

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Curiosi paradossi contemporanei

 

Dispersi nella piramide di Maslow

La piramide dei bisogni di A. Maslow è probabilmente uno degli schemi psicologici più citati, più studiati e più esplicativi di tutta la letteratura manageriale.

Ha oltre cinquanta anni ma non li dimostra: il ragionamento che ne sta alla base non fa una piega: se prima non soddisfo i bisogni legati alla conservazione fisiologica, alla sicurezza di un tetto sotto il quale dormire, non posso pensare di soddisfare gli altri di natura più complessa come la stima, l’appartenenza e l’autorealizzazione.

Non serve una laurea in Psicologia per capire l’idea di fondo della piramide di Maslow.

Eppure, paradossalmente, il concetto è tanto semplice da comprendere quanto disatteso nella sua applicazione pratica.

Diversi politici, imprenditori e manager “ragionano” come se i bisogni fisiologici e di sicurezza non fossero poi così importanti o prioritari per le persone.

Alcuni personaggi non considerano i reali problemi di sopravvivenza che oggi le persone hanno e chi pontifica sulla flessibilità è di solito qualcuno imbullonato alla sua poltrona e alla sua pensione d’oro, maturata magari dopo una manciata di mesi o al massimo qualche anno di legislatura in Parlamento o di servizio in azienda.

Questi faraoni del management o della politica lasciano che le persone si perdano nei cunicoli della piramide di Maslow, lasciandole cadere magari anche nelle trappole di qualche illusione o raggiro comunicativo:

“Siate flessibili e vedrete come sarete felici!

Lavorate ad intermittenza, a progetto o su chiamata e vi sentirete meglio, più liberi di godere finalmente di tanto libero da trascorrere nei centri commerciali!”.

L’incertezza viene dunque venduta non solo come condizione “normale”, “naturale” ma addirittura come uno status auspicabile da vivere, da ricercare attivamente. Una piccola dose di questo veleno comunicativo ci viene iniettata ogni giorno nella mente al fine di creare quel mitridatismo che consentirà a tutti indistintamente un’assuefatta rassegnazione a questo stato di cose.

Il Marketing schizofrenico

In una recente trasmissione di Anno Zero, condotta da Michele Santoro, erano stati invitati alcuni rappresentanti di un folto gruppo – circa settecentocinquanta persone – di Operatori di Call Center di una multinazionale della telefonia mobile che li aveva “esternalizzati”, generando comprensibili preoccupazioni negli Addetti sul loro futuro lavorativo.

Contemporaneamente, su un altro canale, milioni di spettatori potevano gustare lo sfavillante spot pubblicitario dell’azienda in questione, con mezza nazionale di calcio tra i protagonisti.

Oggi il marketing è sempre più schizofrenico: attori, calciatori, comici vengono coinvolti come testimonial in spot pubblicitari dai budget milionari mentre il personale dell’azienda viene esternalizzato ed il Cliente Consumatore deve chiamare il numero di telefono 199 a pagamento per avere informazioni sul servizio e/o acquistare i prodotti.

Vediamo altri esempi di tale “schizofrenia”, entrambi tratti dalla realtà

Primo esempio

“ Siamo un’azienda leader nel nostro settore. XY progetta nuove dimensioni della comunicazione attraverso formule innovative.

Eccellenza tecnologica, esperienza, ricerca e straordinaria capacità di integrazione fanno di XY uno dei principali fornitori al mondo del settore. Tot milioni di euro di fatturato, tot numero di dipendenti, di cui tot dedicati alla ricerca, tot sedi nel mondo”.

Un’altra peculiare caratteristica del marketing schizofrenico è la forte autoreferenzialità sconfinante in un fastidioso narcisismo.

Tuttavia, il vero problema è la forbice aperta tra la realtà “dichiarata” all’esterno e quella vissuta da dipendenti e collaboratori all’interno dell’organizzazione.

Lo scollamento tra la leadership comunicata e anche effettivamente agita nel mercato e quella esercitata all’interno dei gruppi di lavoro si trasforma spesso un divario difficilmente colmabile.

In questo caso, l’azienda trasmette al mercato un’immagine di “forte integrazione” mentre “dentro casa” le persone fanno fatica nel comunicare tra loro.

Da un lato, quindi, l’azienda invia segnali forti e chiari di efficienza ed efficacia ma dall’altro lato, sul versante interno, le persone “si mettono le mani nei capelli”.

Alla magnificenza creativa delle icone elaborate dal marketing e corrisponde, in diversi casi, una stigmatizzante percezione dei collaboratori: “E’ tutta apparenza” o “E’ tutto fumo e niente arrosto”.

Secondo esempio

Il secondo esempio riguarda in particolare i messaggi pubblicitari relativi al “Prendersi cura”.

Uno degli stili comunicativi maggiormente caratterizzanti il modo attuale di fare marketing è la volontà dichiarata dall’azienda di prendersi cura del Cliente, di coccolarlo e di farlo sentire al centro delle sue attenzioni.

Anche se tale comunicazione si riduce in molti casi esclusivamente ad aride promozioni commerciali basate su prezzi bassi e sconti, l’impatto psicologico che crea in termini di distonia all’interno dell’azienda è comunque rilevante.

Curiosi paradossi contemporanei

Tuttavia, anche per i Clienti finali, non solo quelli interni, l’incongruenza generata tra lo scintillio del messaggio veicolato dalla pubblicità ed il livello di (scarsa) qualità del servizio reale ricevuto crea notevole disorientamento ed insoddisfazione.

“Qui da noi personale esperto e qualificato vi saprà accogliere con gentilezza e simpatia”.

Poi entri, nessuno ti saluta e addirittura la consulente addetta alla clientela (!) ti abbaia contro perché in quel momento ha un giramento di scatole dovuto al fatto che, sue testuali parole, “qui dentro nessuno mi si caga”.

Nelle aule di formazione e negli interventi di consulenza, ho ascoltato persone lamentarsi – giustamente – non solo del fatto che l’azienda non dava loro un minimo di buoni pasto ma che non ci fosse nella struttura neanche un luogo dove mangiare un panino: chi mangia in piedi sul corridoio, chi addirittura in macchina nel parcheggio!

A volte, le modalità di gestione del cliente interno non sono proprio in linea con “il prendersi cura” comunicato al cliente esterno.

Trascurare e/o stressare le persone all’interno e comunicare all’esterno un’immagine patinata di sorrisi e benessere rappresenta proprio un eclatante paradosso.

Terzo esempio: il “Gioco di squadra”

Il gioco di squadra è uno dei leitmotiv più gettonati degli ultimi anni non solo nella formazione ma anche nel marketing.

Il “gioco di squadra” ha per certi aspetti subito una pericolosa metamorfosi: da buona prassi metodologica a vuota ideologia da colorire con slogan più o meno retorici..

In questa trasformazione, altre incongruenze hanno trovato terreno fertile.

“Siamo per il gioco di squadra”, “Amiamo il gioco di squadra”, “Siamo un team che gioca per il tuo successo”, rappresentano alcune tipiche espressioni veicolate al mercato attraverso le modalità pubblicitarie più disparate: loghi, payoff, sponsorizzazioni con squadre sportive, spot televisivi, campioni dello sport coinvolti come testimonial aziendali, eventi a tema.

Il concetto e la cultura del “team” hanno invaso la formazione, l’approccio alla leadership ed il modo stesso di intendere l’organizzazione.

In alcuni casi, tale impostazione ha creato reale valore aggiunto nei modelli organizzativi che hanno imparato a funzionare attraverso la creazione di team di lavoro.

In altri contesti, il gioco di squadra è stato vissuto, nella migliore delle ipotesi, come la “moda del momento”, né più né meno alla stregua di un abito griffato della nuova stagione.

In questi casi, i paradossi generati riguardano soprattutto il fatto che le persone all’interno dell’azienda non vivono affatto il gioco di squadra, così tanto sbandierato all’esterno, ma addirittura percepiscono l’insularità del loro ruolo e/o l’ “egoismo” del proprio settore organizzativo – “noi dell’amministrazione, loro del commerciale”.

E’ come una finta facciata disegnata che nasconde i lavori di ristrutturazione di un palazzo del centro storico di una città.

Apparenze patinate dietro cui si celano calcinacci, polvere ed impalcature.

Tale scollegamento psicologico dal contesto organizzativo rappresenta di fatto l’antitesi del gioco di squadra.

Il sentirsi “non integrati”, “non considerati” oppure dichiararsi “isole felici” dalla dubbia felicità o il vivere i cambiamenti “imposti o calati dall’alto”, sono molto probabilmente effetti del forte sbilanciamento tra ciò che viene comunicato all’esterno e quello che viene, non solo comunicato, ma anche agito all’interno.

Ad uno sguardo o ad un orecchio attento non sfugge il fatto che, in diversi casi, i concetti di “vision”, “mission”, “company values” rimangono impressi più su pezzi di carta che nei cuori e nelle menti delle persone.

L’azione manageriale efficace consiste nel far sedimentare nelle persone i semi della “corporate identity” e farli crescere attraverso opportune fertilizzazioni ed irrigazioni.

Infatti, un conto è appendere sulle pareti i quadri con i valori aziendali, altra cosa è facilitarne l’interiorizzazione da parte di tutti gli attori organizzativi.

Credo che oggi la sfida del marketing interno sia rappresentata proprio dal riuscire a far sentire ogni collaboratore un “cittadino dell’impresa”.

L’azienda-agorà diventa in questa prospettiva un modello di apertura e scambio sia all’interno, sia all’esterno, un luogo dove il lavoro possa essere trasformato in “arte” e la mente possa nutrirsi di stimoli edificanti.

Anche i sistemi sociali devono diventare modelli di comunità in cui ognuno possa vivere da “cittadino gratificato” piuttosto che da suddito passivo o reazionario.

Uno dei cambiamenti importanti che noto oggi nelle aziende è che il “senso di appartenenza” è stato esautorato della sua valenza manageriale.

Mi spiego meglio. Una volta, molte aziende venivano vissute o identificate come una “mamma” protettiva e rassicurante o come una “grande famiglia”.

Credo che attualmente le persone percepiscano e vivano le organizzazioni in modo meno “edipico” e più adulto.

La sfida attuale che i manager si trovano ad affrontare consiste nel gestire persone che vivono ormai la multiappartenenza a vari contesti di vita, desiderano un maggior equilibrio tra vita lavorativa e vista personale, nutrono nei confronti dell’azienda forti aspettative di crescita, tendono ad identificarsi prevalentemente con la propria professionalità o con il proprio team di lavoro e non con “famiglia aziendale” o l’azienda nel suo complesso.

Per i manager, dunque, è molto più importante puntare a sviluppare un preciso senso di gratitudine delle persone verso l’azienda che un generico senso di appartenenza.

Quando le persone ringraziano l’azienda per la quale lavorano, invece di maledirla, boicottarla o viverla nell’indifferenza, significa che il management ha svolto un eccellente lavoro sotto un duplice aspetto:

  1. Crescita delle persone, sul piano umano e professionale
  1. Condizioni ottimali di lavoro – sicurezza e piacevolezza degli ambienti, stabilità e remuneratività dei contratti

Entrambi gli aspetti devono sempre andare di pari passo, devono essere dei veri e propri binari sui quali corre il treno della produttività e del benessere lavorativo, un treno che porta il nome di “Satisfaction Leadership”.

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