Il governo del cambiamento o
il cambiamento del governo

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Il governo del cambiamento o il cambiamento del governo

La parola “cambiamento” è una di quelle – come flessibilità, globalizzazione, crescita, incertezza, competitività, precarietà – che la retorica della contemporaneità ha fortemente ideologizzato ad (ab)uso e consumo della politica, dei mass media ed anche di una certa cultura manageriale.

Il primo “ideologo del cambiamento” fu Karl Marx quando affermò che “I filosofi hanno soltanto interpretato il mondo, si tratta ora di trasformarlo”.

Quando Sarkozy vinse le presidenziali in Francia, apparvero alcuni manifesti, affissi a Roma da un partito politico, recanti la scritta: “Vince Sarkozy. Cambia l’Europa”, senza ovviamente spiegare nulla.

Un relatore inizia il suo intervento all’interno di un workshop sulla Legge 626/94 utilizzando il cambiamento come “argomento-aperitivo”: “Siccome tutto cambia e noi facciamo parte del tutto, allora bisogna attrezzarci per il cambiamento”.

Una sorta di sillogismo che farebbe sussultare Aristotele per la sua banalità e generalizzazione.

Purtroppo, non sono pochi i relatori o i formatori che utilizzano questa modalità generalizzante quando affrontano il tema del “Change Management”.

“Bisogna amare l’incertezza” va predicando qualcuno, senza entrare nello specifico e/o senza fornire contenuti ed informazioni funzionali a capire concretamente come si fa.

Il governo del cambiamento si configura invece come una precisa strategia finalizzata a realizzare il progetto del “cambiamento del governo”, vale a dire del modo in cui politici e manager gestiscono la cosa pubblica o privata.

Un progetto non imposto, non calato dall’alto ma condiviso, partecipato e sentito. In Italia, ad esempio, la capacità di ascolto, di condivisione e l’empatia sono drammaticamente carenti a tutti i livelli politici e manageriali.

In Inghilterra, prima di dare avvio alla realizzazione di opere e di infrastrutture con forte impatto ambientale, l’Amministrazione pubblica avvia la cosiddetta “Public Inquiry”, una inchiesta pubblica per ascoltare quello che i cittadini hanno da dire in merito al progetto.

Questa è civiltà, non le scazzottate nella Val di Susa ad opera di cittadini costretti a difendersi con le mani da chi vuole bucare la valle in forza di un arrogante decisionismo.

Il vero significato di civiltà è preoccuparsi dei cittadini e del loro benessere, capire esattamente quali sono le priorità reali sulle quali concentrare le energie e soprattutto dove destinare le risorse finanziarie.

A proposito di uso efficace delle risorse, la sfida epocale a cui il nostro Paese è chiamato oggi è quella dei “cervelli”, dei talenti da trattenere e di quelli da importare.

Il talento che abbandona un’impresa od un Paese, causa il cosiddetto “black out di competenze competitive”, ossia lascia improvvisamente al “buio” l’azienda, l’università o il Paese in cui opera. Certamente i cervelli nostrani non si trattengono mettendoli in una soluzione di formalina!

Secondo Daniele Archibugi54 – Dirigente del Cnr e professore di Innovation, Governance and Public Policy all’Università di Londra – è necessario un vero e proprio piano “per non perderli più”. Il paradosso è che, proprio mentre l’Europa cerca di avvicinarsi agli Stati Uniti, mancano i talenti che sappiano utilizzare i numerosi e spesso eccellenti laboratori e centri di ricerca specializzati presenti nel vecchio continente.

Cosa fare dunque?

“Se si vuole veramente continuare a perseguire la strategia di Lisbona, l’Europa deve imparare dagli Stati Uniti a reclutare e a valorizzare le risorse umane, comprese quelle di altri continenti.

Borse di studio, incentivi ed accordi di collaborazione sono i mezzi incruenti per realizzare il ‘sequestro dei talenti’ (...)

Prendere in prestito i cervelli più promettenti non significa necessariamente svantaggiare i paesi in via di sviluppo, perché la conoscenza può essere moltiplicata.

E ogni talento cui viene data la possibilità di sviluppare le sue capacità in Europa, ha la possibilità di farne crescere altri dieci a casa propria” 55.

Non solo dunque militari sulle strade ma anche e soprattutto talenti nelle scuole, nei centri di ricerca, nelle università, nelle aziende e nella pubblica amministrazione: questo l’obiettivo principale di un governo che svolga la sua azione con vere finalità “morali”.

Sono soltanto le persone di talento collocate nei posti di comando, i bravi leader meritocratici ad assicurare il benessere di milioni di persone.

Il governo del cambiamento o il cambiamento del governo

 

Tuttavia, il necessario cambiamento culturale richiesto per andare verso questa direzione appare lungo e faticoso.

Come conclude lo stesso Archibugi:

“Ma l’Europa sciupa ancora i propri talenti, costringendo molti giovani studiosi a tentar fortuna sull’altra sponda dell’Atlantico.

Va ancora peggio per gli immigrati, destinati a fare i muratori e le badanti, ma non i ricercatori.

Forse non abbiamo ancora capito che anche il ‘ricercatore’ è oramai uno di quei lavori che gli europei non vogliono fare più.

E’ pur vero che ogni tanto si accendono gli animi per stranieri di successo, ma i genietti delle nano-tecnologie e della bio-ingegneria non godono dello stesso entusiasmo riservato ad un centravanti o ad una soubrette” 56

Cesare Beccaria sosteneva che il fine di ogni attività morale e di ogni organizzazione sociale debba consistere nella “Maggior felicità possibile del maggior numero possibile di persone”.

Detto da uno che nel 1764 (!) ha avuto il coraggio di scrivere “Dei delitti e delle pene”, andando contro la tortura ed i sistemi giudiziari dell’epoca, c’è da credergli.

Tuttavia, la nostra felicità di cittadini non può coincidere soltanto con la vittoria della nazionale di calcio ai mondiali. Bisogna cercare ogni giorno la felicità nel funzionamento della pubblica amministrazione, nella qualità della vita lavorativa in milioni di aziende, nella qualità dell’insegnamento in migliaia di scuole ed università, nella viabilità urbana, nel rispetto di ognuno di noi come persone, senza discriminazioni di età, sesso, etnia o provenienza sociale.

54 Articolo de “Il Messaggero” del 14 agosto 2008

55 Ibidem

56 Ibidem

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