Intervista ad Agostino Da Polenza Alpinista

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Articolo tratto dal libro:

La montagna: una scuola di management
"La montagna: una scuola di management. La determinazione del singolo e della squadra sono le chiavi del successo sul K2 come in azienda" di Agostino Da Polenza (Presidente Everest-K2-CNR) e Gianluca Gambirasio, FrancoAngeli 2008

Intervista ad Agostino Da Polenza Alpinista

    • Per un alpinista è più importante: il sapere (conoscenze), il saper fare (competenze) o il saper essere (atteggiamenti)? Perché?

Sapere è l’insieme di quanto hai appreso di tecnica d’arrampicata, di medicina e fisiologia, di clima e natura, cose che qualcuno ci ha trasmesso, che abbiamo letto ma che poi abbiamo applicato.

Imparando proprio dalle infinite e diverse applicazioni del sapere modi e cose nuove, più dettagliate, più affinate: tanto affinate da confondersi con l’imponderabilità dell’istinto. È un bagaglio di conoscenze ed esperienze importante e indispensabile per condurre al meglio, sia sul piano tecnico che etico-sportivo, della sicurezza propria e del gruppo, un’azione alpinistica.

Ma è anche il modo migliore per godere fino in fondo di ogni singola azione e scelta, di ogni momento, di ogni relazione con i compagni e la natura che ci sta attorno. È l’ottimizzazione del risultato.

Saper fare è la conseguenza logica del sapere, della voglia di applicarlo al raggiungimento di un obiettivo. Più la competenza è elevata, maggiori sono i vantaggi, minori i rischi. Una grande competenza è anche la base su cui fondare le nostre capacità creative e innovative.

Saper fare non serve per ripetere all’infinito e in modo meccanicistico un’azione o un gesto, ma a migliorarlo, a trovare soluzioni più appropriate, magari più divertenti, che a volte sono anche più redditizie.

In alta quota, in caso di tempesta e di criticità che possono arrivare fino al pericolo di vita per uno o più componenti la squadra, queste doti sono spesso quelle che salvano il c…o di tutti o della maggior parte.

I problemi, come le soluzioni, non hanno una sola faccia. Saperli affrontare sul piano oggettivo è fondamentale, il colpo di genio è risolutivo.

Il come atteggiarsi di un alpinista credo corrisponda alla sua capacità di porsi di fronte alla montagna, ai suoi compagni, al capospedizione, a se stesso e infine alle infinite eventualità che ogni scelta può comportare.

Essere sempre positivi, anche quando l’ossigeno è 1/3 di quello che respiri al mare, quando l’ultima cosa seria che hai ingerito era un minestrone caldo, del “grana” e un dolce preparato dal cuoco al CB quattro giorni prima; quando l’adrenalina che hai in circolo e l’ematocrito a causa della disidratazione ti farebbero squalificare a vita da ogni sport… Ecco, allora essere ottimisti, tolleranti, lucidi e leader è fondamentale.

    • Quali sono le conoscenze che deve avere un buon alpinista?

Deve conoscere la montagna. Cosa questo significhi non è scontato. La montagna è innanzitutto un ambiente fisico e dinamico. Partendo dalla cima di una montagna che ne è la parte più definibile oltre che essere l’obiettivo di ogni alpinista, va valutata e compresa la quota.

Dai 4000 agli 8000 metri c’è una differenza fisica formidabile. Ma non è solo questione di pressione barometrica e di disponibilità di ossigeno. A ottomila metri, circa un terzo di quello al livello del mare. Ma una cima a 8000 metri è anche un posto freddo.

Tutti abbiamo volato e abbiamo sentito il pilota aggiornarci della velocità di crociera, del vento e della temperatura. A 8000 metri può essere normalmente tra i meno 40 e 50 gradi sottozero. Certo, vicino al suolo e in mancanza di vento la temperatura può essere di 10gradi in più.

Ma raramente non c’è vento lassù in cima. E se il vento diventa forte, oltre i 50 km/h muoversi diventa difficile, oltre i 100 essere in salita o in discesa verso un campo a quote tra gli 8000 e i 7000 metri significa esser esposti a livelli di rischio troppo elevati.

In montagna ci sono due livelli di rischio inaccettabile. Il primo “arancione” quando si rischiano congelamenti gravi, normalmente alle estremità, e relative amputazioni. È “rosso” quando è la vita in pericolo.

Per entrambi i casi sopra il 20 % delle possibilità che accada il temuto, bisogna adottare le contromisure più drastiche e decisive per mettersi al più presto in sicurezza e agire in modo determinato per abbassare il livello di rischio.

Per esempio perdendo quota rapidamente o riparandosi in tenda in un campo, comunicando con il capospedizione che dal campo base ha una visione complessiva delle forze schierate sulla montagna e delle condizioni meteo.

A volte dentro la tempesta si ha la sensazione di essere totalmente in balia degli eventi. Dal base spesso si ha una chiara visione dell’intensità della bufera sulla montagna, della direzione dei venti, dell’andamento della pressione atmosferica.

Si ha maggiore lucidità per pensare a contromisure anche se l’adrenalina ha i suoi effetti. C’è poi un’azione psicologica che può essere esercitata per incoraggiare e motivare chi si trova in difficoltà.

Ma non bisogna dimenticare che chi decide è quello che sta più avanti. Il capospedizione può suggerire, dare consigli, cercare di imporli ma la decisione è sempre del capocordata. Solo in caso di pericolo inaccettabile deve imporre la disciplina di gruppo e la decisione.

In queste poche considerazioni sono racchiuse alcune delle conoscenze fondamentali per un alpinista.

Geografia, geomorfologia e tecniche di orientamento, meteorologia, tecniche alpinistiche e di sicurezza, esperienza nel muoversi su terreni difficili, conoscenze fisiologiche e del proprio corpo in particolare, capacità di capire i danni da freddo, tecniche di comunicazione radio…

Se poi ci abbassiamo di quota, anche con una dose di minore esperienza, le conoscenze che entrano in gioco sono molte. Qualche esempio particolare: saper cucinare è estremamente gratificante e Dio solo sa quanto si ha necessità di cose buone gratificanti e di essere apprezzati dagli amici con i quali si è deciso di vivere per parecchie settimane insieme di vita dura.

Fare foto, trasmetterle via internet, via satellite, cucire uno strappo nella giacca, leggere carte atmosferiche e interpretare le previsioni e le foto meteo, avere nozioni di comunicazione e conoscere il ghiaccio, la storia dell’alpinismo in generale e quella della tua montagna in particolare.

Per non parlare del come si monta una tenda, un fornello, la fisica dei gas che al freddo fanno i capricci, far funzionare un generatore o un impianto fotovoltaico. Insomma un po’ di tutto… Ma ciò che conta è conoscere il proprio istinto.

No, non è un paradosso, l’ho già detto, l’istinto è la capacità che con l’esperienza si affina e potenzia di leggere dentro di noi tutti i segnali del nostro corpo e della nostra mente. Leggere poi quelli palesi e micro che l’ambiente che ci circonda invia. Mettere insieme gli uni e gli altri e trarne delle conclusioni.

Un sistema di supporto alle decisioni ad uso personale e in grado di farci scegliere la migliore soluzione per salire ma anche di salvarti il c…o.

    • Quali sono le competenze che deve avere un buon alpinista?

Le competenze sono in buona parte quelle già indicate, vale forse la pena sottolineare che deve avere anche delle doti cosiddette naturali,fisiche e psicologiche.

Forse una competenza che ho trascurato, volendo partire dalla cima della montagna, è proprio quella di essere un buon organizzatore e gestore delle risorse e del tempo di cui dispone.

Organizzare una salita in Dolomiti o una spedizione al K2 comporta in ogni caso la capacità di gestire una trasferta.

Ma se nel primo caso basta valutare la capacità di superare la difficoltà tecnica, dare un’occhiata alle previsioni, preparare lo zaino e mettersi in marcia e il tutto è condensabile in una decisione del venerdì pomeriggio, una partenza del sabato mattina per poi fare una bella salita, nel secondo caso le complessità si moltiplicano di alcune decine di volte, così come pure le incertezze da superare.

    • Quali sono gli atteggiamenti che deve avere un buon alpinista per aumentare le probabilità di arrivare in vetta?

Un atteggiamento positivo, motivato, attento, rigoroso nel progetto e nell’esecuzione ma anche assolutamente disponibile ai cambiamenti di strategia, ad adattarsi alla situazione del momento che può mutare nell’arco di qualche minuto. Una valanga ,un malore, un cambio di vento improvviso non devono trovarci impreparati.

Ma anche l’amore per la natura, avere la capacità di immedesimarsi fino in fondo nell’ambiente che ci circonda, apprezzandone forme, mutamenti, colori e sapori.

Anche la tolleranza e la capacità di ascolto dei propri compagni è fondamentale.

Persistere, avere pazienza e approfittare delle soste imposte dal cattivo tempo per ritemprare non solo il corpo, ma anche lo spirito. Trovare cose da fare e fare cose anche durante i giorni di cattivo tempo è fondamentale per mantenere il buon umore e la motivazione alta.

    • Come hai fatto a sviluppare le tue conoscenze per affrontare con sicurezza il difficile mondo dell’estremo?

Intanto ho deciso che la montagna doveva essere una delle poche scelte fondamentali della mia vita. Poi ho cercato di capire e conoscerne la maggior parte degli infiniti aspetti e sfaccettature.

Ho scelto e ho avuto la fortuna di sviluppare un percorso alpinistico che mi ha avviato lungo il sentiero dell’eccellenza. Non dico di averla raggiunta ma di averci provato con convinzione e un certo risultato sì.

Essere aspirante guida, quindi professionista della montagna mi ha molto aiutato. L’atteggiamento non era quella dell’amatore, dell’appassionato. No! Era improntato al rigore del lavoro che avvince e appassiona.

Una forte motivazione a migliorare a imparare. Una grande ambizione. Sono partito per il Puscanturpa, una bella parete, poco più che ventenne e subito l’anno dopo mi sonno organizzato una la salita di una delle più dure e difficili pareti andine: la parete sud dell’Huandi con Renato Casarotto.

E poi, a seguire l’invernale al Lhotse, certo non arrivai in cima ma imparai più della durezza della montagna in quell’inverno Himalayano , solo a calle sud che nel resto della mia vita. Erano lezioni intensive , durissime di tecnica , sopravvivenza , e nel contempo le emozioni e i sentimenti che mi provocavano erano talmente appaganti da diventare per me indispensabile “reiterarle” in continuazione , quasi fossero una dipendenza.

Questo aspetto nasconde, ma me ne sono reso conto solo qualche anno dopo alcuni pericoli di eccessiva sopravvalutazione delle proprie capacità e l’accettazione di rischi molto elevati .Ma questa è anche la gioventù e la parte irrazionale della vita della quale non potremmo fare a meno.

Non meno interessante l’analisi delle situazioni organizzative e di conseguenza economiche nelle quali mi trovavo a vivere.

Quanto mi procuravo lavorando i miei ventidue giorni lavorativi mensili, visto che facevo lavori tutt’altro che remunerativi, ho già detto di quelli in esposizione in una fabbrica di gas tecnici, ma feci anche per un paio d’anni il contadino in quelli Cortina d’Ampezzo e poi tre anni come tecnico per l’isolamento termico di abitazioni.

Sviluppai in quel periodo la capacità di sponsorizzarmi, per la verità in modo poco redditizio. Amici che compravano per mille lire la cartolina della spedizione, alcuni più ricchi che mi davano un cinquantamila. Di solito metà ce la mettevo io con i risparmi dei miei stipendi, l’altra metà la raccoglievo.

Ma il virus organizzativo della spedizione mi infettava sempre di più e per me divenne importante anche la parte organizzativa, gestionale. Lessi molto delle grandi spedizioni al K2 di Desio, all’Everest di Bonington, Lionel Terrey … erano i maestri che in appendice ai loro libri di spedizione descrivevano l’organizzazione.

Fu da parte loro che appresi come dare valore anche a questo aspetto che con gli anni invece si è andato sempre più svilendo, non perché sia meno importante o necessario, ma perché l’atteggiamento degli uomini della montagna negli anni settanta e fino ad oggi, ha seguito quello delle maggiori tendenze culturali e sociali.

Tutto ciò che era organizzazione, gestione, professionalità, economia aveva una connotazione negativa. Forse perché associato alle spedizioni nazionali e un poco militarizzate degli anni precedenti e che ancora in quel periodo venivano organizzate. Il mio era un alpinismo laico, privo di contaminazioni ideologiche.

Cercavo semplicemente di fare le cose nel miglior modo possibile.

Ma anche questo veniva confuso con una ricerca esasperata del meglio, del merito, un atteggiamento rivolto alla ricerca della professionalità e in quegli anni sappiamo quanto l’ipocrisia antimeritocratica e l’avversione contro ogni forma di competizione professionale fosse forte.

Voler poi considerare l’andare in montagna alla stregua di uno sport e di una professione non mi lesinò certo l’accusa di trasformare l’alpinismo in un mercimonio, nel migliore dei casi di non riconoscere alla montagna quella componente di spiritualità che la sua natura di luogo separato, vicino al cielo, dove i mistici si ritirano gli aveva conferito.

Ma la storia dell’alpinismo aveva le sue radici in Whimper, Tyndall, Convay e Walker che amavano la grande palestra delle Alpi che forgiava carattere e buone doti, certo chiamandole anche “cattedrali della terra”, ma credo più per un’esigenza di comunicazione, per raccontare in patria l’imponenza delle montagne che per aneliti spirituali e poi quei cacciati delle Alpi che diventarono guide: Carrel, Bich, Gorret, Croz; erano bravi “professionisti” dediti ai loro datori di lavoro, che poi erano, oltre agli Inglesi, Sella, Gniffetti, Vaccarone, Marinelli e Rey, che scrisse quella frase che solo anni fa è stata tolta, a mio avviso inopinatamente, dalle tessere del Cai “Io credo e credetti la lotta con l’alpe utile come il lavoro, nobile come un’arte, bella come una fede”.

La sintesi perfetta anche se un po’ retorica.

    • Da quale persona hai imparato di più sulla montagna? Perché?

Da Gianni Calcagno. Fu un maestro assoluto. Genovese di nascita e carattere. Lo incontrai quando iniziai il Progetto Quota 8000. Tornato “vittorioso” e un po’ suonato a causa dei 5 mesi di durata e della durezza della spedizione al K2 nell’83, con un amico giapponese Riuyi Makita che abitava e lavorava a Bergamo mettemmo in piedi QUOTA 8000.

Una società a responsabilità limitata che si prefiggeva di fare impresa e business lanciando un marchio agganciato al progetto di salire tutti gli ottomila della terra, da parte di una squadra di persone che agissero con un’ottica professionale, sia alpinisticamente sia sul piano della comunicazione.

Gianni, che era un rigoroso purista dell’alpinismo, accettò di farvi parte insieme con il compagno di cordata Tullio Vidoni.

Non si è mai considerato un professionista né dell’andare in montagna,nè dell’organizzazione. La verità è che il suo atteggiamento, il modo di fare, la grande capacità organizzativa e l’esperienza lo rendevano un vero professionista.

Mi insegnò le regole del gioco dell’Himalaya. Mi insegnò anche la bellezza della comunicazione attraverso la scrittura, la fotografia, il documentario filmato. Mi insegnò infine il valore assoluto dell’essenzialità.

Sì, dell’essenzialità nelle regole, nell’organizzazione, nel fare alpinistico. Tutto ciò che si può togliere all’azione pura e nuda è probabilmente superfluo e quindi inutile. Costa fatica, energia e spesso queste sono rubate all’azione principale, quella che ci porta dritti all’obiettivo.

Questa la lezione fondamentale che ho appreso da lui.

    • A cosa ti è servita la partecipazione ai corsi di formazione e ai diversi seminari organizzati in ambito alpinistico?

Erano tempi da autodidatti ma poi, a 19 anni, ho fatto il corso di aspirante guida e quindi, da aspirante guida, ho fatto l’istruttore ai corsi di avvicinamento alla montagna e di alpinismo. Ho avuto la fortuna di poter avere dei buoni maestri e un paio di mentori. Certamente Riuji Makita per quanto riguarda l’atteggiamento imprenditoriale, ma anche il Prof. Ardito Desio.

Un mentore perfetto che ho seguito per alcuni anni con grande affetto e, credo, buoni risultati. Mi ha introdotto nel mondo della ricerca scientifica, mi ha educato al rigore anche nelle cose comuni all’importanza della puntualità, della serietà.

Mi ha insegnato la formidabile e positiva forza della scienza e la labilità degli uomini che la frequentano e a volte la manipolano. Mi ha insegnato come si pranza al Rotary e come si parla con un ministro.

Devo a lui molto. In comune avevamo il K2 e la sua formidabile forza ci ha uniti per molto tempo. Io ho dato a lui il ritorno sulla scena dell’esplorazione, della montagna, della scienza, per alcuni degli ultimi anni della sua formidabile vita. Avevamo pensieri e atteggiamenti talvolta simili, i più malevoli dicono anche le dimensioni del naso.

L’alpinismo, ahinoi, non è mai stato attività da seminari dove confrontare le diverse teorie e tesi, ma di conferenze sì. Normalmente un alpinista racconta la sua storia o quella dell’impresa del momento. Bravissimi Calcagno, Benoît Chamoux, formidabile Kurt Diemberger, professionale e dotto Messner, bravo e spigliato Simone Moro, appassionante e vera la Nives Meroi.

Ma tutti, almeno una volta, hanno fatto una conferenza. Anni fa mi chiesero di rivitalizzare il premio “La Grignetta d’oro”. Proposi una formula che avevo visto e apprezzato a Chamonix. Una giornata dedicata agli alpinisti che volevano raccontarsi. Tutti insieme, 15 minuti l’uno. Beh, con qualche acciacco la formula è ancora in uso.

Ma poi c’erano e ci sono gli appuntamenti fissi come il Filmfestival di Trento. L’ho frequentato con profitto e mi ha anche divertito e ho molto appreso a far parte per un certo tempo della poderosa macchina come membro del consiglio di amministrazione e per un anno della giuria.

Non c’è dubbio che tutte le esperienze e i confronti in un mondo relativamente giovane come quello dell’alpinismo e delle sue espressioni culturali ma anche imprenditoriali, dopotutto Balmat e Paccard sono saliti sul monte Bianco, Whimper sul Cervino e Hillary sull’Everest rispettivamente 250, 150 e 50 anni fa, sono estremamente utili e in ogni caso educative.

    • Quali sono stati per te i tre più forti alpinisti della storia? Perché?

Riccardo Cassin, Walter Bonatti, Reinhold Messner. Riccardo tra i migliori del suo tempo è il patriarca vivente.

Trasforma l’alpinismo e il suo nome in un’azienda di successo, finché c’era lui. Walter, il migliore nel dopoguerra, alpinista formidabile, intelligente, creativo, professionista in quanto guida alpina e sempre professionale, anche quando fa il fotografo per Epoca.

Eroico fino alla più difficile intransigenza non solo alpinistica ma nei rapporti con il mondo alpinistico e della comunicazione che per primo usa con grande maestria, lasciandoci più d’una volta lo “zampino” ma uscendone come il più grande del suo tempo.

Messner è il re degli ottomila, anche se non scherzava nemmeno quando arrampicava sulle Dolomiti. È l’uomo che per la sua storia alpinistica, personale, umana e sociale ha tentato di dare all’alpinismo un pensiero filosofico, e poi politico-ambientale.

Sdogana nei confronti del grande pubblico la pubblicità alpinistica ad uso commerciale. Si occupa di montagna e dei suoi musei della montagna con grande competenza e imprenditorialità.

    • Cosa differenzia un buon alpinista da un campione della montagna?

Facile dire che un campione rincorre la prestazione un alpinista il senso della vita. Ho il dubbio che la seconda cosa si possa fare anche attraverso la prima.

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