Sostenere le motivazioni e dare supporto

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Sostenere le motivazioni e dare supporto

Motivare significa portare le persone a fare quello che devono fare perché hanno voglia di farlo. Bianchi e Masella, 2011

Cosa bisogna fare per sostenere la motivazione dei collaboratori che lavorano a distanza?
Il problema a monte nasce dal fatto che, diminuendo il lavoro in presenza, e quindi l’opportunità di collaborare in modo diretto e fisico con gli altri, diminuisce la motivazione e il coinvolgimento. Le persone possono essere distanti per scelta strategica dell’azienda o distanziate, ovvero tenute a distanza per motivi di sicurezza (nel caso specifico del covid-19) e la comunicazione è limitata a interazioni mediate da schermi e con una connessione non sempre funzionante.

Il senso di solitudine, lo sforzo di doversi adattare a nuove situazioni, la carenza di socializzazione possono prevalere sul sentirsi ingaggiati. O, quanto meno, interferire con la motivazione. La pausa caffè con i colleghi e la mensa sono momenti difficilmente sostituibili. Bisogna allora far leva su altri stimoli. Per esempio, ad un collaboratore sotto tono gli si può dire di aiutare un collega ad organizzare la prossima videocall.

Oppure di lanciare qualche idea simpatica per ritrovarsi tutti insieme on line dopo pranzo. Concedere più autonomia e margini di manovra su come fare le cose, oltre che sul quando, sono buone soluzioni per lavorare sulla motivazione.

La formazione può essere un’altra leva per motivare: webinar efficaci sulle competenze trasversali, su temi organizzativi (non tecnici) come, per esempio, corsi sulla gestione del tempo. Anche webinar con pillole di psicologia applicata alla vita quotidiana possono sortire buoni effetti sulla motivazione. Argomenti come l’intelligenza emotiva, il benessere, la gestione dello stress, offrono sempre ottimi spunti di riflessione per ritrovare motivazione e slancio.

Intensificare la comunicazione: il contatto non finalizzato al lavoro (“ciao, come stai, tutto bene?” agito da parte del responsabile è un altro fattore motivante. E’ quel prendersi cura del benessere dei proprio collaboratori che fa la differenza, quel “rendersi conto che le parole traghettano fatti” (Sara Bellingeri, giornalista).

Bisogna anche formare le persone nell’acquisire una mentalità “self-service” – essere autonomi, indipendenti, sapersela cavare da soli e “self-learning” – ognuno si autoingaggia sull’apprendimento e sull’autoformazione riguardo contenuti legati al lavoro ma non solo. Infine, bisogna sensibilizzare sulla responsababilità di ognuno nel rispettare il tempo degli altri e stimolare al massimo il senso del risultato.

Poi, bisogna saper motivare il team nel suo insieme. Come?
Vediamo alcuni fattori chiave:

1. Obiettivo chiaro, condiviso e trainante:

• “Dove si vuole arrivare e perché è importante andarci”
• “Cosa dobbiamo ottenere e perché è importante che lo otteniamo”
• “Dalla missione aziendale allo scopo di quello che facciamo”

2. Se non ci vengono assegnati obiettivi, bisogna saperli creare

La tecnica S.C.O.R.T.A. per creare obiettivi, tarati su misura del team e del contesto in cui opera:

Specifico
Concreto
Ottenibile
Riscontrabile
Tempificato
Avvincente

Una regola per la gestione degli obiettivi: l’adesione emotiva ad un obiettivo è direttamente proporzionale alla misura in cui i collaboratori hanno contribuito alla sua creazione.

Esercizio: crea un obiettivo per il tuo team
Applica la tecnica S.C.O.R.T.A. per creare un obiettivo da assegnare al tuo team:

La motivazione: un esercizio di apprendimento personalizzato:
Leggi questo approfondimento sul concetto di motivazione ed estrai i punti salienti per te. Specifica poi perché li ritieni importanti e come puoi applicarli nel tuo stile di management o nel tuo contesto organizzativo:

Lettura:
Oggi abbiamo bisogno di manager capaci di motivare le persone a trovare dentro di sé la forza per automotivarsi. La motivazione, infatti, è una questione strettamente personale. Ecco la ragione per cui parliamo di manager motivanti e non di “motivatori”. Da molto tempo, ormai, sappiamo che la motivazione o, meglio, le motivazioni di un essere umano non sono configurabili in rapporti lineari di causa-effetto ma disegnano traiettorie psicologiche più circolari, ellittiche se non addirittura iperboliche.

Infatti, esse risentono sensibilmente degli effetti di decisioni, azioni, opere e omissioni del management. E’ giunto finalmente il momento di sfatare il mito della motivazione associata soltanto agli aspetti economici. Tra l’altro, anche espressioni storiche come “Motivazione al lavoro”, “Senso di appartenenza” e “Siamo i leader del nostro settore” oggi vanno necessariamente sostituite con quelle di “Adesione emotiva agli obiettivi”, “Processi di responsabilizzazione” e “Orientamento ai risultati attraverso il trasferimento di valore al Cliente”.

Il manager motivante è dunque una persona capace di creare le condizioni per le quali le persone trovino validi motivi di coinvolgimento e responsabilità in quello che fanno e abbiano chiara la percezione del valore del rapporto tra i risultati che ottengono nel loro lavoro ed i risultati attesi dal loro Cliente interno o finale.

Il manager motivante chiarisce sempre alle persone non solo quello che devono fare ma, soprattutto, il perché va fatto. Tale azione sarà possibile soltanto nel momento in cui il manager crea un modello di relazioni e di collaborazione basato su trasparenza, comunicazione semplice e diretta e sull’utilizzo di un metodo di lavoro che funzioni davvero. Abbiamo la conferma di tali affermazioni anche quando un manager cambia azienda: la sua assistente, alcuni eccellenti venditori o collaboratori lo seguono nella nuova avventura.

Il modello di questi rapporti fiduciari, in cui la stima ed il riconoscimento reciproco sono molto forti, dovrebbe improntare di sé anche tutti gli altri rapporti manageriali all’interno dell’organizzazione. Infatti, alla base del buon funzionamento di un gruppo di lavoro troviamo la fiducia reciproca, un sentimento diffuso di tranquillità e quel senso di affiatamento operativo che è possibile riscontrare soltanto tra persone che trovino stimolante lavorare insieme.

Sostenere le motivazioni e dare supporto

 

La motivazione, dunque, è un concetto prismatico, dalle tante sfaccettature e dai mille risvolti. Un manager, per virtù e/o per necessità di ruolo, dovrebbe conoscerli tutti. Le motivazioni, inoltre, evolvono nel tempo. Cambiano insieme alle stesse persone. Bisogni, esigenze e desideri seguono i risvolti e le pieghe delle vicende biografiche, manifestando così un carattere “sfuggente” e mutevole nel tempo.

Gli psicologi Atkinson e Seligman hanno provato a rendere matematico l’umanistico concetto di motivazione attraverso alcune equazioni che possono offrirci una pratica chiave di lettura dei fattori che giocano a livello individuale. Atkinson, ad esempio, definisce la motivazione come “L’insieme delle variabili che influenzano la riuscita delle persone”. La sua formulazione matematica originale è: M = A x V dove “M” sta per motivazione, “A” per aspettativa di riuscita (quanto penso di farcela) e “V” per valore attribuito ad una determinata azione (quanto ne vale lo sforzo e l’impegno).

Soltanto la persona interessata può specificare il “peso” di A e di V: ecco il motivo per cui non possiamo motivare nessuno in modo diretto ma abbiamo bisogno di conoscere a fondo quali sono le A e le V delle persone coinvolte per creare le “giuste” condizioni di attivazione della motivazione. All’equazione motivazionale originale, Seligman aggiunge un terzo fattore “E” che rappresenta l’energia intesa come carica fisiologica ed emotiva profusa nell’azione. Il fattore E rappresenta dunque l’intensità complessiva dello sforzo agito per raggiungere il risultato.
L’equazione completa diventa quindi: M = A x V x E

Questa elegante “soluzione matematica” al “problema” della motivazione può essere suggestiva ma non esaustiva né tanto meno definitiva: un manager motivante è una persona che, in aggiunta, è capace di ottimalismo. Sì, avete letto bene, non è un refuso al posto di ottimismo. Pessimismo ed ottimismo sono due categorie psicologiche ormai obsolete, di scarsa utilità per comprendere le effettive modalità attraverso le quali le persone si rapportano al mondo e agli eventi della vita.

La differenza tra un ottimista ed un ottimalista è sostanziale. L’ottimista esprime speranze generiche affermando, ad esempio, che “Le cose andranno bene”, “Tutto andrà per il meglio” oppure adotta nei confronti degli altri un approccio pseudotranquillizante del tipo: “E’ tutto sotto controllo!”. L’immagine mentale a cui l’ottimista fa riferimento è quella del bicchiere mezzo pieno, un’icona psicologica anch’essa logorata dall’uso.

In diversi casi, la persona ottimista può incorrere in forme più o meno gravi di autoreferenzialità derivante da due atteggiamenti mentali errati: il primo è quello che gli anglosassoni definiscono “Self Indulgence”, ovvero l’eccesso di tolleranza nei confronti degli aspetti negativi della propria personalità. La Self Indulgence ci porta ad essere troppo buoni con noi stessi, misconoscendo responsabilità e punti deboli. Il risultato è che diventiamo troppo tolleranti o indifferenti nei confronti dei nostri errori, precludendoci importanti margini di miglioramento.

La persona affetta da Self Indulgence nutre la convinzione che, ironicamente, potremmo sintetizzare così: “Gli altri hanno difetti per natura, io per le circostanze”.
Il secondo tratto negativo che può segnare la personalità dell’ottimista è la “Self Positivness”, ovvero mostrare un eccesso di ottimismo. Tale atteggiamento risulta distruttivo nel momento in cui la persona arriva a mistificare o addirittura a negare la realtà, attraverso manipolazioni linguistiche e comportamentali più o meno intenzionali. (…) L’ottimalista, a differenza dell’ottimista, rimane prima di tutto sintonizzato sulla realtà, ancorato ai fatti, con l’obiettivo di cogliere quante più sfumature possibili di quello che sta accadendo, dimostrandosi sempre onesto con se stesso e con gli altri su quello che si può oggettivamente e realisticamente fare o non fare.

Mentre l’ottimista si aspetta genericamente che le cose vadano bene, auspicando una vaga “ripresa dell’economia per il futuro” oppure ritenendo che “Le cose si risolveranno da sole, basta dargli tempo”, l’ottimalista si sforza intenzionalmente di trovare/creare il bene ed il buono – un insegnamento, una consapevolezza, una risorsa, una soluzione – in ogni cosa che vive, bella o brutta che sia, nel tempo presente.

In sintesi, l’ottimista spera, l’ottimalista agisce.
L’ottimalismo, dunque, è un’importante tecnica psicologica alla base dell’arte del saper vivere. In tale prospettiva, il manager ottimalista si sente a suo agio nel vivere e lavorare anche nell’incertezza derivante dall’ormai costante turbolenza degli scenari. Questo professionista sa cogliere le molte contraddizioni ed i grandi ossimori che caratterizzano la nostra epoca, inglobandoli efficacemente nella sua visione.

Il manager motivante ed ottimalista sviluppa quella essenziale capacità di leggere le dinamiche del mercato, confrontandole con quelle del proprio contesto organizzativo, al fine di comprenderne le reciproche influenze e condividerle in modo costruttivo con i suoi collaboratori.

In conclusione, l’ottimista si trova in una posizione esistenziale di generica attesa nei confronti di eventi che potranno come non potranno accadere, mentre l’ottimalista è proiettato consapevolmente verso la ricerca e/o la creazione di opportunità.
La filosofia pratica del manager motivante ed ottimalista è improntata su uno straordinario aforisma di Mark Twain: “Offrite ad ogni giornata la possibilità di essere la più bella della vostra vita”.
(Articolo di Stefano Greco, pubblicato sulla rivista Leadership & Management n. 11 dicembre 2011)

I miei spunti di riflessione dalla lettura:

Dopo la formula di Atkinson e Seligman, vediamo ora la formula di quello che definiamo “Engagement potenziato”, una vera “leva motivazionale multipla”:

E³ = Empowering x Enabling x Energizing
Empowering: responsabilizzare, far contribuire alla presa di decisioni, rendere autonomi.
Enabling: abilitare all’utilizzo di nuove tecnologie, aumentare le competenze, mettere in condizione le persone di applicare le capacità apprese nei percorsi formativi personali e aziendali.
Energizing: accendere la scintilla della curiosità, della voglia di fare, della passione

Esercizio: piano di lavoro per il potenziamento dell’engagement

Sviluppa il piano rispondendo a queste domande:
• Come posso dare un nuovo slancio alle azioni di engagement per rafforzare il senso di squadra e la condivisione di obiettivi, scopi e azioni?
• Come posso mantenere i collaboratori “ingaggiati” nella continua trasformazione?
• Come posso comunicare le nuove sfide con un linguaggio che accenda la scintilla?
• Cosa posso fare per gestire il confine sempre più sottile tra la comunicazione interna e la formazione? (Questo può significare che una videocall ha un taglio sempre più formativo, un webinar veicola sempre di più messaggi e contenuti aziendali)
• Come posso personalizzare le comunicazioni all’interno del team? (rispetto ai singoli e al gruppo, in funzione di esigenze e situazione specifiche)
• Cosa posso creare uno storytelling interno per stimolare energia nel team o nell’azienda?
• Come posso utilizzare le nuove tecnologie digitali per supportare gli obiettivi di trasformazione? (Per esempio, con esperienze di team building on line, con l’utilizzo della realtà virtuale per assessment o formazione, business game)

In conclusione, bisogna aiutare le persone a crearsi la giusta mentalità (mindset) per vivere il lavoro da casa in modo tale da salvaguardare il necessario legame tra benessere e produttività. Se l’obiettivo di quando si lavorava in presenza era trovare il “giusto” equilibro lavoro-vita, attraverso una gestione del tempo cronologico, fatta di flessibilità contrattuale, spostamenti casa-lavoro, trovare un lavoro se possibile “vicino casa”, oggi l'obiettivo è separare la casa dal lavoro.
Lavorando a casa, bisogna riconfigurare completamente lo schema mentale, attraverso alcune regole:

1. Ritagliarsi uno spazio dedicato (“Dove lavori influenza il come lavori”)
2. Separare il lavoro dalla famiglia stabilendo il principio del “Come se fossi in ufficio”. Lavorare a casa non significa essere disponibili e lo spazio di lavoro diventa "Limite invalicabile" (come le zone militari).
3. Appena concluso il lavoro o in pausa pranzo, uscire di casa per fare sport, mangiare con qualcuno, camminare a zonzo per il quartiere o nella zona residenziale.

L'obiettivo di chi lavora a casa diventa quello di “intensificare” quanto più possibile la vita fisica per compensare in modo adeguato la virtualità del lavoro.

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