I luoghi del cambiamento

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I luoghi del cambiamento

di Laura Menza

“Per essere felici bisogna in qualche modo divenire virtuosi dell’esistenza, ma al modo in cui si definisce virtuoso un grande pianista, un acrobata e in generale tutti coloro che, a seguito di un lungo esercizio, sanno rendere facile il difficile – o perlomeno riescono a farlo apparire tale –, che sanno trasformare le difficoltà in stimolo, che sanno tramutare la fatica in bellezza, in opera d’arte”.

Salvatore Natoli, La felicità di questa vita

La premessa

Quando mi è stato chiesto dall’autore di scrivere un capitolo che riguardasse i cambiamenti che avvengono nel contesto lavorativo e nelle situazioni affettive, ho pensato che sarebbe stato semplice.

Mi si chiedeva solamente di riflettere sulla mia esperienza lavorativa nelle organizzazioni ed esperienza di vita in generale ed individuare, così come può fare un geologo, i vari strati che compongono un’esperienza di trasformazione e di leggerli in un’ottica di processo sottolineandone i “momenti” o i “passaggi” più rappresentativi.

E poi prodigarmi in una serie di “preziosi ed utili” consigli per chi, lettore in cerca di risposte, si trova ad “attraversare” i percorsi già raccontati e definiti da queste parole.

Durante il mio tragitto, mi sono accorta che riuscivo solo a formulare domande, domande che aprono altre domande.

Una serie di scatole cinesi al contrario, dove la più piccola, che rappresenta l’oggetto di interesse, contiene quella di dimensioni più ampie.

Mi sono dovuta fermare più volte.

Non è facile tollerare la presenza di tanti punti interrogativi.

Credevo che avrei trovato, dopo una lunga e attenta ricerca, la scatola più grande.

Non ci sono riuscita!

Ed è stato l’unico punto esclamativo che ho potuto scrivere, e a dir la verità con soddisfazione ed un senso di pienezza.

Parlare di cambiamento appariva, inizialmente, affascinante.

Così come può apparire affascinante trovare delle soluzioni a problemi complicati.

Il cambiamento è un processo alquanto complesso e più che individuare soluzioni, propone l’introduzione di nuovi elementi per arricchirne il più possibile strade e percorsi conoscibili.

Pensavo sarebbe stato facile come descrivere i cambiamenti nel volto di una persona nel corso degli anni.

Si trattava di aggiungere qualche ruga, evidenziare la pienezza o la lucentezza dello sguardo.

Come il volto di una persona è dato dalle relazioni spaziali tra gli elementi che compongono il viso, la simmetria o l’asimmetria, la tonalità emotiva che ne cambia velocemente l’aspetto, le atmosfere che possiamo leggervi come appartenenti ad una storia che ci viene narrata o a volte celata dai tratti somatici, dalle somiglianze e dalle espressioni ormai cristallizzate nei lineamenti, così il cambiamento appare, al di fuori delle costrizioni teoriche, meta desiderabile e al contempo irraggiungibile, dotato di senso e progettualità e contemporaneamente impensabile ed indefinibile, repentino e atemporale.

Soprattutto, esso si connota al nostro sguardo con una forma spiegabile solo attraverso un “come se” o con un “sembra”.

Quasi a voler richiamare aspetti conosciuti, familiari, rassicuranti, in una forma che accoglie in sé elementi più legati all’incertezza che alla certezza.

Non avevo fatto ancora i conti con quello che nella mente si prefigura come un ostacolo al cambiamento stesso.

Pensare al cambiamento inevitabilmente porta ad interrogarci su cosa vuol dire per noi cambiamento e come lo agevoliamo oppure lo ostacoliamo.

I luoghi del cambiamento

Pensare il cambiamento

Sono seduta ad un tavolino di un bar in un parco.

Ho la testa china sul foglio ed aspetto che macchie nere dotate di senso sporchino il foglio bianco.

Mi giro in cerca di voci, di sguardi.

Bambini inglesi che giocano tra le risate.

Si muovono continuamente come spinti dal vento.

Tre donne giocano a carte in silenzio. Si guardano.

Un anziano su di una sedia a rotelle sorride ad una donna mentre sorseggia un cappuccino.

Un ragazzo ed una ragazza, seduti accanto a me, alternano dolci baci e carezze ai quiz per la patente.

Penso al cambiamento, a quanti modi ci sono per rappresentarlo, viverlo, pensarlo, desiderarlo, ostacolarlo, ignorarlo o farlo proprio.

“Tu non cambi mai!” Mi chiedo se è possibile non cambiare.

Cosa osserviamo negli altri ed in noi stessi come indicatori di un palese cambiamento o di un’altrettanta palesata resistenza a cambiare?

Vestiti, capelli, espressione, lavoro ed avanzamento di carriera, “cose della vita” come un fidanzamento, il matrimonio, la nascita di un figlio, l’addio a persone care.

Non ci risparmiamo né risparmiamo agli altri.

Nulla sfugge al nostro occhio indagatore.

Osserviamo, indaghiamo, valutiamo.

Esultiamo se ci sentiamo cambiati o ci spaventiamo, siamo contenti se qualcuno vicino a noi sta attraversando un periodo fertile della propria vita.

A volte proviamo invidia, soprattutto quando sentiamo che la nostra vita, come una barca alla deriva, continua a riportarci negli stessi luoghi.

Vorremmo prendere il largo, ma le correnti continuano a trascinarci senza sosta sugli stessi scogli.

Il panorama non cambia. Allora l’altro si palesa ai nostri occhi come luogo irraggiungibile, ideale ed idealizzato.

Lo sentiamo o lo immaginiamo pieno, ricco di beni materiali ed immateriali.

Avvertiamo in noi la carenza, la povertà, l’aridità.

Noi eterni possessori del nulla e l’altro beneficiario di ricchezze proibite precluse alla nostra avidità, ma così fortemente evidenti ai nostri occhi.

A volte succede che qualcosa cambia nella nostra vita.

Ma noi imperterriti, quasi fossimo colpiti da una maledizione, continuiamo a vederci uguali e a sentire che tutto ciò che ci circonda rimane immutato e soprattutto immobile.

A volte, facciamo fatica a riconoscerci in una forma più definita – come in un ruolo lavorativo o sociale.

Ad esempio, il passaggio dalla vita universitaria a quella lavorativa o quello dalla vita individuale a quella coniugale, pur desiderati, possono innescare sentimenti contrastanti che potrebbero condurre ad un rifiuto del cambiamento stesso.

In sintesi, qualcuno teme quello che desidera.

Sentiamo angoscia se cambiamo, se transitiamo da una forma ad un’altra più definita, così come le cose della vita ci inducono e conducono a esperire.

Penso a tutto ciò che accade nella vita di relazione come l’innamoramento, la forma della coppia, della famiglia, la separazione, il gruppo di amici.

Sentiamo altrettanta angoscia se ci accorgiamo che la nostra vita rimane cristallizzata nel tempo e nello spazio.

Come le lancette di un vecchio orologio appeso alla parete di una cucina disabitata, ferme da sempre.

O come indicatori di tempo – orologi, cellulari, sveglie, televisioni – sparsi nei luoghi che abitiamo come a rendere indefiniti ed indefinibili spazi e luoghi della vita.

Parlare di cambiamento vuol dire in qualche modo pensarlo, ovvero concedergli uno spazio all’interno della mente e dargli “diritto di cittadinanza”.

Concretizzare nella mente una funzione della mente stessa, così complessa nella sua vivibilità e visibilità.

Non sapremo mai abbastanza del cambiamento.

Ne conosciamo le difficoltà, le resistenze, l’approssimarsi, l’invivibilità.

Insomma, abbiamo disegnato i confini di una mappa con la netta sensazione di non conoscere il “paesaggio rappresentato”, un territorio che appare come un qualcosa di nuovo ogni volta che la mente lo raffigura.

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