In che modo cambiamo?

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In che modo cambiamo?

Scrive Danilo Kiš nel suo libro Dolori precoci: “Ha sentito, la casa non c’è più, adesso c’è un melo.

Un albero nodoso, contorto, senza frutti.

La stanza della mia infanzia si è trasformata in un riquadro di cipolle e nel punto dove si trovava la Singer di mia madre c’è adesso un cespuglio di rose.

A lato del giardino sorge una palazzina nuova di tre piani, dove abita il professor Smerdel.

Gli ippocastani sono stati abbattuti, dalla guerra, dagli uomini – o semplicemente dal tempo.

Ed ecco che cosa è accaduto al numero 27 di via Bem una ventina d’anni fa, periodo che io ho voluto scavalcare con un lirico balzo in avanti...

Adesso, in quel punto, c’è un riquadro di cipolle, e dei bei porri verdi, signora...”.

Paesaggi conosciuti all’improvviso cambiano aspetto.

Si allargano, si restringono...oppure si celano ai nostri occhi.

Ciò che era prima, ora non è più.

E ciò che è adesso, ci spaventa.

Sono state le domande rispetto a quel processo complesso che è il cambiamento.

Non sappiamo mai l’inizio, la fine.

Ci sfugge quando avverrà l’esatto momento della consapevolezza.

Possiamo solo viverlo.

“Guarda come sono cambiato”.

“Mi sento finalmente un’altra... sono cambiata”. “Come si cambia eh...”.

Affermazioni collegate a doppio filo ad emozioni di stupore, di contentezza o di una malcelata malinconia.

Ma chi cambia?

E soprattutto:

cosa cambia?

Probabilmente, siamo abituati a pensare che cambiamento significhi diventare altro da sé... e la voglia di essere altro da sé è sempre molto forte.

Ripenso alle geografie del corpo ora mutevoli più che mai che ridisegnano incessantemente nuovi confini.

Penso agli interventi sul corpo che alzano, abbassano, arrotondano, appiattiscono, allungano, modellano come se fossimo di plastilina.

Ai disegni sul corpo.

Un corpo utilizzato come una mappa sulla quale disegnare o far disegnare simboli, sentimenti, storie che la narrazione verbale non riesce a rendere così nitide.

La chiara sensazione è che ci sia sempre qualcosa al posto di altro.

Una sorta di sovrastruttura immaginaria che con il tempo tentiamo di rendere visibile, attraverso i modi che abbiamo di raccontarci.

E poi gli oggetti...

Quello che è un gioco da bambini, come il mascherarsi e smascherarsi, che ha un tempo limitato come qualsiasi gioco, finisce per diventare negli adulti una ricerca incessante nella quale l’aspetto ludico si perde nella fretta e nella smania di essere sempre altro da sé.

Lo racconta molto bene Woody Allen nel film Zelig.

Un personaggio maestro in trasformazione e trasformismi.

In che modo cambiamo?

Ho detto personaggio e non persona.

In qualche modo, chi non supera quell’incerta terra di mezzo tra il cambiamento e la ricerca di altro da sé sembra entrare più in un personaggio e dimenticare la persona, offuscando quel “suono” unico ed irripetibile – da cui il termine persona – che ci contraddistingue come individui autentici.

Cosa ci impedisce a volte di essere una “persona”?

Cambiare significa tendere ad essere se stessi. Senza sovrastrutture, senza finzioni.

Si, perché mascherarsi è finzione e smascherarsi avvicina all’infinito di rimandi di specchi di verità riflesse.

Se cerchiamo bene e magari nel posto giusto, troveremo un frammento di verità.

Ovvero qualcosa che sentiamo appartenerci.

Vicino, così vicino che ha il nostro stesso odore e che riconosciamo come qualcosa di personale.

Come cambiamo?

Rimanendo noi stessi, paradossalmente.

L’idea è che ci sia sempre qualcosa che non va nel verso “giusto”.

Quindi bisogna cambiarla. Bisogna cambiare, cambiare, cambiare.

A volte desideriamo che tutto cambi in poco tempo, come per magia.

Momenti in cui la speranza, il desiderio, la voglia di cambiare si concretizzano in un pensiero e nella possibilità che si attui.

Momenti in cui la pigrizia prende il sopravvento e la voglia di lottare si affievolisce in un modo alquanto preoccupante.

Forse vorremmo tornare indietro, in un preciso momento della nostra vita in cui la pesantezza di quello che ci accade ora era inimmaginabile o forse vorremmo trovarci all’improvviso proiettati in una situazione di vita più comoda e gratificante, dove le preoccupazioni e le occupazioni che ci attanagliano si dissolvono all’improvviso.

Un tempo, in cui contemporaneamente convergono presente, passato e futuro, senza soluzione.

Non mi è mai capitato di trovare possibilità, fino ad allora impensabili, in quel momento di intenso desiderio.

Tuttavia, rimane in me intatta la curiosità e l’ interesse verso coloro, i cui accadimenti della vita, prendono forme tali da permettere evoluzioni specifiche ed immediate.

A volte, il prezzo del cambiamento è troppo alto.

Non possiamo sostenerlo fino in fondo.

Ci predisponiamo per aggiungere vetri colorati alla nostra vita e poi, come colti da un’angoscia paralizzante, sentiamo la minaccia.

Vetri colorati da una parte e vetri rotti dall’altra.

Qualcosa si è rotto e qualcosa è cambiato.

Ci siamo distratti per un momento, ci siamo occupati d’altro, dei nostri desideri, della vita.

Paghiamo pegno per avere ottenuto qualcosa.

Forse non potevamo permettercelo, ma ormai è successo.

Adesso dobbiamo correre di là, ad aggiustare quello che sentiamo come irrimediabilmente perduto.

Per sempre. Viviamo sospesi su di un filo, ci manteniamo in equilibrio.

Di là il nuovo, le possibilità e di là la rottura.

È uno stesso mondo, che non comunica.

Mai liberi di vivere dentro un’esperienza per poterla assaporare fino in fondo.

L’angoscia violenta irrompe e noi armati di attrezzi corriamo dove sentiamo che la temporanea assenza alla ricerca di vitalità, come un gioco di correnti, ha prodotto un vortice di paura, a volte di terrore.

Aleggia la morte che leggera ci richiama alla staticità, all’immobilismo.

Ci riavvolgiamo nel nostro torpore, ci copriamo di foglie secche e vento, ed aspettiamo inerti come l’autunno, un’irruente primavera.

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