Luoghi e non luoghi del cambiamento

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Luoghi e non luoghi del cambiamento

Se dovessi associare ad una sola parola che possa racchiudere due degli infiniti significati del cambiamento, attraverso una contrazione di due termini, penserei a “paessaggio”.

Paessaggio poiché, se da un lato ne cogliamo la non conoscibilità e al contempo la concretezza di un luogo, dall’altro riusciamo comunque ad attribuirgli un significato legato ad un passaggio, ad un transitare da un “luogo” conosciuto ad un “altro”.

Luogo di destinazione che si configura nel momento in cui il cambiamento si sta attuando come “non-luogo”.

Sappiamo che ci sarà una destinazione d’arrivo, ma non sappiamo – nel senso di non averne fatto ancora esperienza e quindi vissuto – quale sia questo luogo.

Mi rendo conto, scrivendo, che ogni cambiamento è sempre legato ad un movimento.

Difficilmente riusciamo a pensare al cambiamento come colto da un elemento di staticità.

Tuttavia, la staticità potrebbe essere pensata come all’interno di un processo di trasformazione laddove persistenza e cambiamento vengono a collocarsi come due momenti di un medesimo processo.

“Fermenti di cambiamento” vengono a prendere forma nella persistenza e il cambiamento porta con sé elementi di staticità intesa come pensabilità, possibilità di una stasi riflessiva.

È come se nella staticità riuscissimo a concepire il cambiamento e nel cambiamento riuscissimo a “conservare” e a fare esperienza di ciò che è accaduto.

Può accadere un perdurare, un vivere in uno stato di attesa laddove vi è un continuo rimando di una possibile finitezza del desiderio e dell’azione.

Una forma indicibile, aperta, che lascia spazio alla molteplicità, alla casualità, all’infinitezza.

Un continuo rimando ad una forma finita, dove possibili mondi contemporanei sono ancora da esplorare e dove la vita è sempre in divenire.

Passaggi veloci di atmosfere indefinite, che non si compiono mai e di cui non possiamo mai coglierne l’essenza.

Laddove gli elementi del cambiamento si pongono incontrastati al nostro sguardo, non riusciamo a coglierli così come non riusciamo a coglierne il valore.

Dispersi in un presente carico di fatti del passato, svuotato di sensi e di emozioni, proiettati incessantemente verso un futuro che appare quanto mai sganciato da una realtà non esperibile poiché incessantemente attaccata e corrosa da contenuti ed elementi mortiferi.

Il desiderio ed il tendere verso si fanno spazio nella mente in modo dirompente ed esplosivo.

Nella difficoltà di scegliere tra forme definite, possiamo ritrovarci nell’illusione di poter fermare e governare il tempo, come si fa quando si gira la clessidra.

Nel libro I tempi del tempo gli autori L. Boscolo e P. Bertrando descrivono le differenze legate al tempo. “Per i greci aion è il “sempre”, la durata senza limiti, priva di passato e di futuro (Curi, 1878b).

Chronos è invece il tempo inteso come grandezza misurabile e numerabile... è divenire misurabile, kairos è il tempo dotato di un significato, il tempo costituito di episodi che hanno inizio e fine, il tempo dell’azione umana (Kermode, 1967).

La dicotomia è, questa volta, fra tempo obiettivo e tempo vissuto.”

Ivan Gončarov, scrittore russo dell’Ottocento, descrive così il suo personaggio più famoso nel suo Oblomov: “Era un uomo di trentadue- trentatre anni, di statura media, di bell’aspetto, dagli occhi grigio scuri, ma dai tratti del suo volto non traspariva alcuna idea determinata, né un qualche cenno di concentrazione.

Il pensiero vagava libero come l’aria sul volto, sfarfalleggiava negli occhi, indugiava sulle labbra semiaperte, si nascondeva tra le rughe della fronte, per poi sparire completamente, cosicché la luce uniforme dell’indolenza appariva sul volto.

Dal volto l’indolenza si trasmetteva alle pose di tutto il corpo, perfino alle pieghe della veste da camera.

“A volte il suo sguardo si offuscava, con un’espressione di stanchezza o di noia; ma nemmeno per un attimo la stanchezza e la noia riuscivano a scacciare dal volto la mitezza, che era l’espressione dominante e fondamentale non solamente del volto, ma dell’anima tutta....

“Oblòmov, di nobile stirpe, con il grado di segretario di collegio, vive ininterrottamente a Pietroburgo da dodici anni...

Anziché cinquemila rubli di reddito ne riceveva ormai da settemila a diecimila in assegnati;...

Allora era ancora giovane, e anche se non si può dire che fosse vivace, era per lo meno più vivace, rispetto a ora; era ancora pieno di diverse aspirazioni, sperava sempre in qualcosa, si aspettava molto sia dal destino, sia da se stesso; si preparava sempre per una missione,...

Ma i giorni si susseguivano ai giorni, gli anni agli anni, la peluria si era trasformata in una barba ispida, gli occhi, un tempo lucenti, erano divenuti due puntini opachi, i capelli si erano messi impietosamente a cadere, erano suonati i trent’anni, e lui non si era avvicinato ad alcuno dei suoi obiettivi e continuava a stare sulla soglia della sua arena, proprio là dove era dieci anni prima.

“Egli però raccoglieva sempre le forze e sempre si preparava a iniziare la vita, sempre tracciava nella propria mente il ricamo del proprio futuro; ma ogni anno che gli volava sopra il capo doveva modificare ed eliminare qualche cosa in questo ricamo...

Che cosa faceva mai a casa? Leggeva? Studiava?

Sì: se gli capitava sotto mano un libro o un quotidiano, lo leggeva.

Luoghi e non luoghi del cambiamento

 

“Se sentiva parlare di qualche opera degna di nota, sorgeva in lui la voglia di conoscerla: la cercava, chiedeva del libro e, se glielo portavano rapidamente, si metteva a leggerlo, iniziava a formarsi in lui un’idea sull’argomento trattato; un passo ancora, e l’avrebbe fatto proprio; e invece, guarda un po’, è già disteso, fissa apatico il soffitto, e il libro giace accanto a lui, senza che l’abbia terminato, né compreso”.

La vita giace sotto le coltri. A volte si affaccia, in altre occasioni rimane nascosta, dolente e pigra.

Un tentativo, un cenno, un’azione... tutto si interrompe, anzi viene lasciato morire come soffocato.

Guardiamo il desiderio sfiorire, ingiallire e spegnersi.

Ci attanaglia la malinconia per qualcosa che avremmo potuto fare e che non siamo riusciti a fare.

In alcune circostanze, è stato il destino ad avercelo impedito; in altre, nei momenti di consapevolezza, ci rendiamo conto di aver lasciato incustodite tracce di vitalità e di non essere riusciti a dargli un senso.

Opache, si sono allontanate da noi fino a perdersi. Guardiamo l’orizzonte e lo scopriamo lontano, irraggiungibile.

Tutto ci appare come frutto di una fatalità.

Crocevia della vita. Direzioni altre da quelle desiderate, sognate, pensate.

Forse.

Diventiamo tristi.

Cerchiamo conforto nelle nostre lacrime e chiediamo a noi stessi ed agli altri un sentimento di pietas.

Perché non siamo riusciti a capirne il senso, perché i segnali erano deboli, perché dispersi nella quotidianità abbiamo lasciato andare ciò che sembrava in ombra.

Eppure si trattava dei nostri stessi desideri.

Immagini, parole, emozioni che abbiamo trattenuto nei pomeriggi estivi, nelle domeniche riflessive, nelle notti affollate e rumorose senza sonno.

Invece siamo lì, attoniti. Una preoccupazione, un desiderio, un pensiero ci hanno tenuto sulla corda e poi, all’improvviso, volano via come un aereo invisibile, impalpabile, irraggiungibile.

Vestiamo di nero la nostra anima. L’abbiamo persa, l’ abbiamo persa... una possibilità.

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