Lavoratori? prrrrrrr!

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Lavoratori? prrrrrrr!

Stefano Greco
Psicologo del Lavoro, Specialista di Management e Formatore
E-mail: stefano.greco@olympos.it

ARTICOLO PUBBLICATO SU HR ON LINE 2014

La pernacchia che Alberto Sordi rivolge ad un gruppo di operai che stavano lavorando sul ciglio di una strada rimane memorabile almeno quanto il film “I vitelloni” di Federico Fellini.

Simbolicamente, quella stessa pernacchia, il mercato del lavoro la rivolge alle centinaia di migliaia di “risorse umane” che il lavoro lo stanno disperatamente cercando o lo hanno drammaticamente perso.

Ad oggi, circa 670.000 lavoratori in Italia sono in cassa integrazione.

Queste persone hanno smesso di “nuotare con vigore”, ovvero hanno smesso di lavorare guadagnando il loro reddito dalla loro azione produttiva, per “galleggiare a peso morto” a spese della collettività.

Stato, aziende e sindacati pensano ancora di risolvere i problemi del lavoro nel mondo globale del terzo millennio con le vecchie ed ormai non più praticabili “soluzioni” del XX Secolo.

Tanto per cominciare, utilizzare la cassa integrazione è come mettere benzina in un serbatoio bucato.

Naturalmente, il serbatoio bucato non è il cassaintegrato ma la struttura economica del Paese.

Questa “soluzione” è un tipico lavaggio di mani alla Ponzio Pilato al fine di proteggere quegli azionisti e manager che sono i veri responsabili del fallimento dell’azienda, perché incompetenti oppure non etici oppure entrambi.

La storia, ancora una volta, si ripete: Barabba libero ed impunito, Gesù sulla croce.

Tuttavia, anche i lavoratori hanno la loro quota parte di responsabilità nelle crisi aziendali, soprattutto quando ostacolano i cambiamenti, non si rimettono in gioco professionalmente e quando aspettano la manna dal cielo senza comprendere che oggi lo sviluppo professionale è quasi interamente nelle mani e nelle iniziative di ognuno di noi.

Molti ancora aspettano la “riconversione” industriale della loro fabbrica quando questa ha già delocalizzato i suoi impianti produttivi in un altro paese molto più competitivo sul costo del lavoro e delle materie prime.

In altre parole, la fabbrica viene delocalizzata in un Paese molto più globale del nostro.

In questo senso, pensare di impedire la globalizzazione è come dire al sole: “Oggi voglio che tu che sorga ad Occidente e tramonti ad Oriente”.

In realtà, sono i lavoratori stessi che dovrebbero preoccuparsi della loro riconversione, sfruttando tutte le risorse informative e formative disponibili.

Lavoratori? prrrrrrr!

Un operaio di una fabbrica che non ha più speranza in quel settore industriale, almeno nel luogo dove lavorava, può tranquillamente riconvertirsi come cameriere piuttosto che come tassinaro, oppure con un altro mestiere nel mondo dei servizi di assistenza tecnica o addirittura mettersi in proprio avviando un’officina, a condizione naturalmente che ne abbia le capacità imprenditoriali.

Da questo punto di vista, le opportunità ci sono ed in ogni caso, anche se non dovessero esserci, vanno create.

Alcune rigidità mentali e culturali rappresentano dei micidiali boomerang per molte persone afflitte da problemi di lavoro.

Nella risoluzione dei problemi legati al lavoro sussiste dunque una corresponsabilità diffusa a tutti i livelli, dalla politica alle istituzioni, dalle aziende agli stessi lavoratori anche se, a volte, lo sbilanciamento è forte dal lato aziendale e/o politico.

Per quanto riguarda, ad esempio, il difficile rapporto tra giovani e lavoro, Roberto Merlini afferma che: “In nome della flessibilità, troppe aziende offrono troppo poco rispetto a quello che chiedono: stage semigratuiti e contratti a termine per un breve orizzonte reddituale e, se va bene, una formazione spendibile altrove.

Non basta certo a stimolare quell’impegno organizzativo che è la base di una prestazione convinta, appagante e soddisfacente, per la quale il successo non sta più nello status e nel potere, ma nel piacere di fare qualcosa che sia stimolante, al di fuori di strutture organizzate da altri”.

(“Giovani e lavoro, un rapporto difficile”, articolo dell’ Informatore INAZ di Milano, N. 20 del 31 Ottobre 2010).

Confermiamo dunque la condizione psicologica che sempre più persone, non solo giovani e non solo nel Sud, vivono oggi non soltanto rispetto alla precarietà del lavoro – la fatica di cercare lavoro in rapporto alle probabilità di trovarlo – ma anche e soprattutto riguardo la scarsa considerazione delle qualità umane e delle loro professionalità da parte di aziende ed istituzioni.

L’ossessione per il costo del lavoro da un lato e la mancanza di un approccio etico dall’altro, contribuiscono a svilire quel senso di dignità umana che ogni lavoro, per definirsi tale, dovrebbe assicurare.

Conclude Roberto Merlini: “A mio modo di vedere, la rottura del contratto psicologico tradizionale, basato su uno scambio paritetico tra lavoratore e datore di lavoro, ha avuto un peso determinante sul problema della disoccupazione in generale ed in quella giovanile in particolare”.

La disoccupazione non è dunque un problema “statistico” ma una questione culturale, dove la differenza la fanno, ancora una volta, i rapporti basati sulla reciproca fiducia, le azioni ispirate da comportamenti imperniati su valori etici ed il rispetto umano.

Sempre riguardo i giovani, al di là di queste considerazioni, penso che finché un giovane non diventi autonomo, nel senso che esce dal guscio familiare e va a vivere per conto suo, non può considerarsi una vera e propria risorsa per se stesso e per gli altri.

Abbiamo bisogno di sequoie giganti e di rigogliosi pini mediterranei non di bonsai.

Certe famiglie, con il loro atteggiamento iperprotettivo e ansiogeno, non fanno altro che ostacolare, se non inibire, il pieno sviluppo dei figli che psicologicamente e pedagogicamente coincide con la conquista dell’autonomia ed il suo mantenimento nel tempo.

Anche i figli hanno naturalmente la loro quota parte di responsabilità: basta con gli alibi del “caro affitto” o del “aspetto di sistemarmi” o “aspetto che la mia ragazza trovi un lavoro stabile”.

Ragazzi, diventate autonomi, andate a vivere per conto vostro e, naturalmente, vogliate sempre bene ai vostri genitori!

Autonomia e personalità forte coincidono.

Più un giovane è autonomo ed indipendente, più rafforza l’autostima e la capacità di perseguire i propri obiettivi.

Questi sono gli elementi fondamentali per affermare se stessi senza affidarsi a terzi, sperando o illudendosi per qualche raccomandazione.

A proposito di raccomandazioni, è irrealistico pensare di poter debellare una volta per tutte questa piaga sociale e culturale.

Le raccomandazioni esisteranno sempre.

Tuttavia, nel mio libro “Da risorse umane a persone” (Franco Angeli), distinguendo le raccomandazioni con merito da quelle senza merito, ho implicitamente sottolineato il fatto che il merito può costituire una spinta positiva a far si che almeno certe posizioni vengano ricoperte da persone capaci ed orientate al lavoro.

Mi auguro comunque che tutti i giovani provino quella immensa gioia che deriva dal raggiungere un ambizioso traguardo avendo contato soltanto sulle proprie forze ed assaporino fino in fondo il piacere di avercela fatta da soli.

E’ veramente una straordinaria emozione poter dire: “Ce l’ho fatta soltanto per merito delle mie capacità!” (e non grazie a mio zio).

Questa riflessione rimanda al tema della meritocrazia, un argomento così poliedrico che non è facile comprendere quali sfaccettature, tra le tante possibili, riflettono una direzione socialmente costruttiva e quali invece quella della discriminazione o della “scusa istituzionale” per tagliare il personale o giustificare corsi a “numero chiuso” nelle università.

Se meritocrazia vuol dire, ad esempio, creare un sistema trasparente che assicuri la certezza di avere professori competenti e motivati a scuola come nelle università allora sono a favore della meritocrazia.

Se meritocrazia significa semplicemente una vaga ideologia da strumentalizzare a seconda di come tira il vento politico allora sono completamente a sfavore.

Meritocrazia come strumento democratico di governo significa assicurare sia le pari opportunità a tutti – nel senso di considerare le persone uguali – come valore e rispetto umano – ma non identiche – a livello di caratterisitche, capacità e talenti – sia la conseguente selezione a beneficio della società stessa come necessario passo successivo.

Le persone migliori – nel senso etico e professionale – devono poter occupare i “posti migliori” affinché il loro operato generi benefici per tutti.

Ricordando una celebre citazione di Goethe: “Nulla è più funesto dell’ignoranza attiva”.

Possibile interpretazione: guai a mettere persone incompetenti in ruoli chiave.

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