Intervista ad Agostino Da Polenza Alpinista

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Articolo tratto dal libro:

La montagna: una scuola di management
"La montagna: una scuola di management. La determinazione del singolo e della squadra sono le chiavi del successo sul K2 come in azienda" di Agostino Da Polenza (Presidente Everest-K2-CNR) e Gianluca Gambirasio, FrancoAngeli 2008

Intervista ad Agostino Da Polenza Alpinista

 

        • Quanto incide l’affiatamento tra i compagni di cordata?

      Tutto. Ma cos’è l’affiatamento? È pari livello, preparazione, esperienza, prestanza atletico/alpinistica. E in ogni caso, se anche non fosse pari il livello, è conoscenza reciproca, disincantata e trasparente dei reciproci limiti e potenzialità.

      È fiducia e tolleranza. È fare squadra, capacità di compensare. È motivazione e chiarezza degli obiettivi.

      Non necessariamente amicizia. L’amicizia va governata, può perfino essere pericolosa se ci toglie lucidità.

        • Cosa si può fare per aumentarlo?

      Stima. Quando si stimano le qualità alpinistiche, umane, imprenditoriali delle persone con le quali siamo legati in cordata allora l’affiatamento aumenta.

      Ma l’affiatamento figlio della stima si coltiva con l’allenamento individuale, dimostrando di esser bravi, affidabili, di saper giocare in squadra e anche per questo bisogna allenarsi, prepararsi.

        • Quali sono gli errori più frequenti che rischiano di compromettere il successo di un’ascensione alpinistica?

      La superficialità può compromettere l’organizzazione e l’armonia organizzativa. La supponenza mina i rapporti di fiducia. La sottovalutazione delle difficoltà può portare alla catastrofe.

        • Cosa significa per te successo?

      Come per ogni sportivo è l’attimo della “vittoria”, l’adrenalina pura della felicità, la sintesi di tutti i sentimenti e i valori positivi che hai messo in campo.

      Le conseguenze si diluiscono nel tempo con il riconoscimento pubblico del valore raggiunto, con i riconoscimenti economici, professionali, la cui legittimazione origina dalla fatica, dal sacrificio, dalla positività della “vittoria”. Il successo è però fragile e difficile da mantenere, come salire la cresta terminale di una montagna.

        • Cosa provi quando arrivi in vetta ad una montagna?

      Credo di averlo già detto prima. Per la verità la sensazione non è sempre uguale. Credo dipenda dalla storia che ci sta dietro.

      Il mio successo in cima al G2 era stato rubato, dopo tre giorni di tempesta e con un compagno di cordata con le gambe paralizzate al primo accenno di bel tempo avrei dovuto scendere, invece io tentai e salii in vetta.

      Certo fu una grande e formidabile lezione che lessi poi in ogni dettaglio, anche quelli più feroci nei miei confronti. Diverso il K2 del 1983, con il bivacco in vetta, con totale partecipazione.

      Ma la vetta non è la fine dell’impresa. Sembra banale, ma da lassù bisogna scendere e questo non sempre è facile.

        • Quale è stato il complimento / lode (come alpinista) che hai gradito maggiormente nel corso della tua carriera? Perché?

      Che sono un alpinista intelligente, che ha fatto della sua passione una professione di successo. Per carità, è una caratteristica che appartiene a molti che vanno in montagna. Ma mi piace pensare che la mia vecchia passione per la scienza sia riuscita a coniugarsi con la mia passione e professione giovanile, l’alpinismo, dando vita a un mestiere che non ha uguali.

      Faccio l’imprenditore realizzando progetti complessi e di alto profilo, siano essi scientifici, alpinistici, d’immagine, di cooperazione allo sviluppo sostenibile, di partenariato imprenditoriale.

      Mi è spiaciuto di aver rinunciato all’università in favore della passione alpinistica dopo essermi iscritto ad architettura ma posso affermare, con profonda convinzione e con l’umiltà di chi l’università l’ha frequentata e la frequenta per lavoro e collaborazioni di grande spessore, che la montagna dal punto di vista metodologico e culturale mi ha fornito gli strumenti tecnici, collaudati sulla mia pelle e nel corso di un tirocinio durissimo e ricchissimo di stimoli umani culturali scientifici che hanno sopperito alla preparazione universitaria. Non è del tutto ovvio.

      E poi sono contento che da questa mia attività traggano lavoro almeno tre dozzine di giovani e meno giovani collaboratori in gran parte impegnati nella parte scientifica ma che comunque si fanno coinvolgere con passione dalla parte montagna e ambiente.

        • Cosa ti spinge nella scelta della vetta successiva da salire?

      La felicità è sapere che ci sono sempre montagne da salire, cime da raggiungere. Lo ha scritto Benoît. La sfida. Mallory, alla domanda «perché salite le montagne?», risponde: “semplicemente perché sono lì”.

      Vale per le montagna,vale per le sfide imprenditoriali, scientifiche… La sfida è connaturata all’evoluzione e dunque accettiamola con consapevolezza.

        • Quali sono le principali difficoltà che incontri più di frequente nell’affrontare un’ascensione? Come le affronti per superarle?

      Un’ascensione, l’ho già detto, per essere portata a termine con successo, stile e sicurezza presuppone una perfetta conoscenza di molte cose: geografia, meteorologia, tecnica dell’arrampicata, preparazione psicofisica, motivazione…

      Un cambio di tempo può creare serie difficoltà, a volte essere drammatico e pure catastrofico. Ricordo la salita della via della Sud della Marmolada con Marco Preti. Eravamo quasi fuori dalla salita, sotto la parte terminale, proprio sotto gli scarichi del rifugio della funivia.

      Tentai il tutto per tutto su un terreno orrendamente marcio e mezzo ghiacciato. Finché decisi di scendere un paio di tiri e girare a sinistra. Uscimmo in cresta al buoi, con i nuvoloni vicini che ormai ci toccavano ed elettrizzavano.

      Il mattino successivo era una lastra di ghiaccio. Fossimo rimasti là sotto, avremmo avuto seri problemi non solo a passare la notte ma anche la mattina per salire quegli ultimi cento metri. Sono rischi che, se presi o non evitati, aumentano esponenzialmente.

        • Raccontaci una situazione in cui hai fatto ricorso alla creatività per superare con successo un imprevisto durante un’ascesa?

      Vetta del K2, bivacco. Io appiccicato ad una roccia, Joska 10 metri da me in una truna. Prima dell’alba Josef ha freddo, viene verso di me. Lo sento, si avvicina, mi chiama e mi chiede come sto, almeno credo.

      Si accovaccia in fianco e sento qualcosa che rotola in basso, un rumore di qualcosa di gomma. Avevo tolto gli scarponi doppi per massaggiare i piedi tutta notte e quello che rotolava giù era la mia scarpetta in propilene.

      Al sorgere dell’alba ho staccato il cappuccio del piumino, poi ho arrotolato la bandiera italiana avvolgendo il piede da sotto, come quando si incarta un pesce; ho preso la cinese che era più grande e sottile e l’ho arrotolata attorno, infine il cappuccio. Mi ero rifatto la scarpetta.

      Ci ho messo sopra lo scafo di plastica e il risultato era meno tragico del previsto. Ho imprecato tutta la discesa con il pericolo di perdere rampone e scarpone ma non è successo e il mio piede non ha subito alcun congelamento… anzi.

      Creatività culinaria nei bivacchi e ai campi, quando finisce tutto e allora ti ingegni in improbabili invenzioni per togliere all’acqua il sapore di piscio e dado che spesso ha quando sei in bivacco.

        • Quale è stata la salita che ti ha dato più soddisfazione? Perché?

      Da ragazzo la sud dell’Huandoi in Perù. Una grande parete piena di difficoltà tecniche e d’arrampicata. Ma anche per il freddo e la durezza dell’ambiente. Una salita sofferta, al limite.

      Poi certamente il K2 mio dell’83. Nulla di così completo e totalizzante ho realizzato dopo. Progettazione, organizzazione logistica, la squadra, il marketing, gli sponsor, le autorità, il viaggio, l’esplorazione, la comunicazione, i film,… Tutto concentrato in due anni di lavoro senza stipendio.

      Uno stage formidabile.

        • Quanto conta la fortuna e la sfortuna nell’alpinismo? Ci puoi raccontare alcune tue esperienze?

      Bisogna essere bravi ma anche fortunati. Spesso i bravi sono anche fortunati.

      Ma questo fa il verso a “aiutati che il ciel t’aiuta”. Al K2 nell’83 avemmo fortuna. Credo in generale di aver avuto sempre fortuna. Pochi incidenti: in pratica ho condotto come capospedizione 18 tentativi su degli ottomila, a partire dal 1980, ho guidato spedizioni che hanno portato in vetta una cinquantina di alpinisti: 15 sul K2 in 4 spedizioni.

      Purtroppo l’unica tragedia è toccata a Lorenzo Mazzoleni mentre scendeva dal K2. Insomma, sono stato fortunato e ho portato fortuna. Anche nel mio lavoro imprenditoriale la sorte mi è stata vicina. Non ho mai mollato però ho cercato di favorirla.

        • Cosa significa per te fallimento?

      Avere fatto male un lavoro. Averne consapevolezza e assumersene la responsabilità senza se né ma. Dietro il successo come per il fallimento ci sono scelte e fatti oggettivi. Solo in caso di catastrofi naturali potrebbe esserci un’attenuante ad un fallimento e, forse, anche in quel caso andrebbe considerato che luogo e momento sono comunque scelte che implicano una responsabilità.

      A volte si rinuncia, si posticipa la salita per le condizioni atmosferiche ecc… e questo non è un fallimento: è solo lotta per raggiungere l’obiettivo. Il fallimento è l’assoluta impossibilità di raggiungere un obiettivo.

      Così come le scelte cruciali della vita sono poche e determinano la vita stessa la sua qualità, sposarsi, avere figli, dedicarsi a un’attività e cercare di diventare il più bravo. Si fallisce quando uno degli obiettivi vitali non è più perseguibile e ci si rinuncia.

        • Quale è stata l’impresa alpinistica più importante che non sei riuscito a portare a termine?

      Avevo pensato alla traversata Lhotse “Shar - Lhotse - Everest”. Un qualcosa che, fatto venticinque anni fa, avrebbe fatto fare un salto qualitativo all’alpinismo himalaiano. Ma non ho avuto il coraggio. Oggi ho due sogni: il K2 in invernale e il GII.

        • Come ti sei sentito nel momento di dover rinunciare?

      Beh, non ho mai rinunciato definitivamente. Anche al K2 in inverno. Certo non potrei impegnarmi in prima persona e, francamente, non conosco alpinisti in grado di candidarsi per quest’impresa con possibilità superiore al 5% di farcela, ammesso che ce ne siano almeno 5 o 6 di questo livello.

      È veramente difficile ma non bisogna mai e poi mai mollare la presa. Rinunciare a realizzare o partecipare a realizzare un sogno è un po’ come morire.

        • A cosa ti è servita quell’esperienza di “sconfitta” per il seguito della tua carriera alpinistica?

      Se stiamo parlando della rinuncia, mi è servita a capire la differenza tra sconfitta e rinuncia. Io non ho mai rinunciato all’alpinismo, sarebbe stata una durissima sconfitta, un fallimento.

      Le rinunce sono momenti di grande depressione adrenalinica. Io sono incazzato nero, di solito, e cerco di razionalizzare invece che devo essere calmo, riflessivo, calcolatore, che devo mettere a profitto ogni minima cosa appresa perché ci sarà il momento della riscossa.

        • Quali sono state le cause più frequenti che ti hanno costretto ad abbandonare imprese alpinistiche in corso di svolgimento?

      Ho sempre cercato di non farmi incastrare nelle limitazioni tecniche. Rinunciare alla vetta perché ti mancano tre chiodi e duecento metri di cordino, o perché devi rientrare obbligatoriamente quella data perché hai il volo lo trovo deprimente, controproducente.

      All’Everest con Benoît abbiamo rinunciato perché era troppo pericoloso continuare su per il Coloir Urbani, c’era di mezzo la vita. È stata l’unica volta che ho rinunciato alla vetta.

      Altre volte ho scelto di limitare il risultato scientifico, sacrificandolo alla sicurezza. La realtà dice però che, nonostante questo, siamo stati il gruppo che ha ottenuto le migliori performances.

        • Quali sono stati dei tuoi errori che ti hanno portato a dover rinunciare ad un’ascensione?

      L’errore più grande lo fai scegliendo male gli uomini, l’altro non capendo fino in fondo le tue possibilità costruendo un progetto troppo ambizioso rispetto alle possibilità di riuscita.

      È una tecnica di marketing che invece Simone Moro ha adottato. Io l’ho criticata e non la adotterei.

      Credo però che abbia il vantaggio di spingere in avanti gli orizzonti della sfida, almeno a livello dialettico. Prima o poi seguiranno i fatti.

        • Raccontaci una critica nei tuoi confronti (come alpinista) che ti è servita per migliorare?

      Mi accusano di essere supponente, di considerarmi bravo nel mio lavoro e di non considerare troppo gli altri. Tutte le volte che me lo dicono io, che sono orgoglioso e anche permaloso, ci penso e ne esco ogni volta più forte perché so che la forza è anche nella consapevolezza di essere vulnerabile, di non essere infallibili.

      Ci penso e cerco di migliorare.

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