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“L’arte rinnova i popoli e ne rivela la vita. Vano delle scene il diletto ove non miria preparar l’avvenir” Epigrafe del Teatro Massimo a Palermo
Abbiamo visto come il necessario ed urgente passaggio che il potere politico deve compiere, se vuole recuperare molta della credibilità perduta, sia quello del passare da una politica come
“prerogativa personale” ad una politica esercitata come “funzione razionale collettiva”, dove l’aggettivo razionale sta per “precisa focalizzazione sul bene comune”.
Il bene comune è l’insieme degli indicatori di civiltà di un Paese e l’essenza di quello che possiamo definire come “progresso”.
In Germania le autostrade sono gratuite, non esistono quei mostri ambientali che sono le barriere dei caselli.
Questo significa che in Germania le tasse pagate dai cittadini hanno un preciso ritorno in termini di ecocompatibilità delle strade, del notevole risparmio di tempo, del piacere di viaggiare.
In Austria, a parte il casello del Brennero, gli automobilisti applicano un bollino sulla macchina e poi viaggiano liberi.
Nel centro storico di Praga, ci sono dei dispensatori di sacchetti di plastica per raccogliere gli escrementi dei cani.
A Vienna non esistono macchine parcheggiate in doppia fila, nessuno suona al semaforo, non esistono scritte sui muri.
Vogliamo parlare anche del numero di linee metropolitane di città come Londra, Parigi, Madrid, Barcellona, Vienna, Monaco, Berlino e delle altre città europee?
A New York, ormai è proverbiale, i taxi girano in continuazione e quelli disponibili li fermi tranquillamente per strada, la tariffa è chiara e non rischi “estorsioni legalizzate”.
Ecco cosa intendiamo per “indicatori di civiltà” di un Paese.
La domanda che nasce spontanea, riguardo l’Italia è:
Ieri eravamo un popolo di santi, poeti, navigatori... e oggi?
Giovanni Giolitti parlava della nostra società come di una “società un po’ gobba”, riferendosi forse alla nostra congenita difficoltà culturale di rimanere “eretti” su dei sani principi morali.
In effetti, se il grado di civiltà di un popolo si misura da come lo stesso popolo definisce, cura e sviluppa il bene comune, il nostro non eccelle particolarmente.
Abbiamo un senso dell’individualità ipertrofico contro un senso della collettività affetto da nanismo. Per anni ci hanno ripetuto che “piccolo è bello” – riferendosi alle Piccole imprese del nostro tessuto economico – con il risultato che oggi, nell’epoca della globalizzazione, l’Italia non ha nessuna impresa veramente globale né una università in grado di competere con le migliori del mondo.
Francesi, Olandesi, Spagnoli ci stanno colonizzando ed i nostri imprenditori continuano a delocalizzare le loro fabbriche in Cina, Ungheria, Romania, Polonia con il risultato di far crescere quelle economie e non la nostra.
Per certi aspetti, nel mare del mercato globale, siamo come una barchetta che sta navigando in mezzo a delle corazzate.
Una mia amica mi raccontava, giustamente contrariata, che scarpe prodotte in Cina, vengono comunque vendute in Italia al prezzo di 300,00 euro.
Qual è dunque per noi il vantaggio delle delocalizzazioni?
In ogni caso, se un imprenditore delocalizza all’estero perché in Italia il costo del lavoro è alto, perché allora non facciamo in modo di abbassarlo e creare sviluppo nel nostro Paese?
Perché l’Italia non attira capitali stranieri a livello degli altri Paesi avanzati?
Perché calamitiamo lavavetri, vu cumprà e venditori di fiori che importunano le coppie nei giardini e nei ristoranti piuttosto che ricercatori e lavoratori qualificati?
Perché il lavoro nero continua ad essere più conveniente del lavoro regolare?
Anche un bambino capirebbe che per sconfiggere il lavoro nero bisogna semplicemente rendere molto più vantaggioso il lavoro regolare ed inviare l’esercito a controllare che nessuno sfrutti nessuno.
Oggi l’unico boom riguarda l’edilizia. Interi quartieri e mastodontici centri commerciali crescono come funghi a ridosso delle città.
Vengono realizzati con piani regolatori certo, peccato però che tali piani non prevedano la realizzazione di metropolitane o l’ampliamento di strade la cui ampiezza risale agli anni ’50 del secolo scorso.
Peccato che i nuovi appartamenti vengano realizzati con la cubatura minima prevista dalla legge “per ottimizzare gli spazi” ma soprattutto per massimizzare i profitti dei costruttori, penalizzando gli inquilini che devono farsi tutti i mobili su misura e vivere in sostanza all’interno di veri e propri loculi.
Mi è capitato di recente di andare a vedere un appartamento in costruzione in una zona rurale a circa 20 km dal Grande Raccordo Anulare di Roma, in cui il costruttore “obbligava” all’acquisto anche del box auto, in una strada dove si poteva tranquillamente parcheggiare all’aperto, ad un prezzo complessivo pari a quello di una abitazione della periferia della capitale.
Arrivando al nocciolo della questione, possiamo definire la seguente disequazione:
Espansione intesa come crescita indiscriminata ≠ progresso come sviluppo del bene comune
Nella crescita indiscriminata, c’è chi vince tanto e chi perde pesantemente.
Nel progresso inteso come sviluppo del bene comune, vincono tutti: l’ambiente che viene rispettato, i politici che hanno autorizzato il “giusto” piano regolatore, i costruttori che traggono “giusti” profitti dai loro investimenti, i cittadini che acquistano abitazioni al “giusto” prezzo, con i servizi adeguati in termini di viabilità e collegamenti, e con le cubature dei moduli abitativi non claustrofobiche.
Naturalmente, non sono coinvolti soltanto i costruttori immobiliari nella sfida del progresso come sviluppo del bene comune.
“Pecunia olet” dice Franco Ferrarotti 51 riferendosi ai profitti delle multinazionali o a quelli prodotti dai “furbetti del quartiere” di recente apparizione sulla scena sociale italiana.
Il capitale si è finanziarizzato e le multinazionali sono i veri nomadi di oggi, apolidi incontrastati nelle loro scorribande sui mercati globali.
Sempre secondo il famoso sociologo, l’impresa deve sviluppare e consolidare sia un’etica esterna, sia una interna.
Un’etica “compatibile al 100%” con i requisiti di conformità alla qualità dei prodotti/servizi offerti sul mercato.
Un esempio di mancanza di etica è quando la cessione di un ramo d’azienda diventa lo “strumento legale” per parcheggiare le persone in attesa del loro licenziamento.
L’etica deve diventare dunque una vera e propria “tecnica di civile convivenza” messa a punto per la gestione della complessità degli scenari in cui viviamo, in stretto abbinamento con la diffusione a tutti i livelli della cultura della meritocrazia.
L’agire etico e meritocratico fa in modo che le organizzazioni siano socialmente legittimate e riconosciute come vere e proprie “attrici umaniste”, protagoniste a tutti gli effetti del rinascimento morale che la nostra società sta aspettando da tempo e di cui ne ha estremamente bisogno.
Il valore principale sul quale incardinare l’etica e la meritocrazia è quello della intersoggettività, del dialogo tra culture, del primato dei rapporti umani sulle “logiche” di potere.
Tale intersoggettività deve basarsi su due presupposti fondamentali:
La satisfaction leadership che abbiamo approfondito nel secondo capitolo, diventa sempre di più una “inclusion leadership”, vale a dire una managerialità con la capacità di accogliere le differenze e costruirci sopra, di sperimentare in modo costruttivo la molteplicità di persone e situazioni di cui è fatta la vita, non solo lavorativa.
Tale leadership non è né maschile né femminile ma deve essere una competenza espressa da entrambi i sessi con eguale efficace, al fine di realizzare organizzazioni “people intensive”, vale a dire fortemente orientate alla valorizzazione di chi ci lavora e non solo come dipendente.
Favorire il funzionale equilibrio lavoro-vita delle persone sarà una priorità per tutti i bravi leader che considerano “stakeholder” – portatori di interesse – chiunque abbia a che fare con l’organizzazione
A questo proposito, la gestione dei fornitori è un’altra nota dolente dell’epoca delle “risorse umane”.
Oggi esistono eserciti di free lance, di forzati della partita IVA e collaboratori occasionali che, non solo vengono scarsamente retribuiti rispetto alla quantità e qualità del lavoro che svolgono ma devono anche aspettare tempi biblici per ricevere i pagamenti.
Una volta esisteva l’espressione “pagamento a babbo morto”. Oggi tale locuzione non si sente più in giro per il semplice fatto che è diventato “normale” aspettare mesi, se non addirittura un anno e più, per ricevere il compenso dovuto.
“Agosto, fatture tue non vi conosco”, potrebbe essere il titolo del capitolo dedicato al rimando dei pagamenti.
“Ad agosto si ferma tutto”, “ne riparliamo a settembre o a gennaio (detto ai primi giorni di dicembre): sono queste le frasi che i free lance ascoltano dai loro clienti, mentre intanto i tempi di pagamento si allungano.
Tali comportamenti dimostrano l’esistenza di un approccio da “risorse umane” nei confronti dei “fornitori”, che prima ancora di essere fornitori sono persone che hanno i loro mutui da pagare, le loro bollette ed i loro bisogni da soddisfare.
Negli Stati Uniti esiste un’organizzazione – Freelances Union – che si batte per sancire “Nuove regole per i nuovi lavoratori” 52.
In tale prospettiva, una legge che andrebbe introdotta subito nel nostro Paese è quella che obbliga le aziende e qualsiasi altra struttura che utilizza il lavoro dei free lance – scuole, centri di formazione, pubblica amministrazione, società di consulenza – a pagare le fatture entro e non oltre i sessanta giorni dalla data di emissione della stessa, pena salatissime multe sanzionate da un’apposita autorità che vigili su questa tipologia di lavoro e che intervenga tempestivamente ed efficacemente in caso di ritardi dei pagamenti.
Il passaggio da “risorse umane” a persone comporta dunque un radicale cambiamento di approccio, con la rivitalizzazione del concetto di “prossimità umana”: cliente e fornitore empaticamente insieme nel soddisfare le reciproche esigenze, riconoscendosi e rispettandosi prima di tutto come esseri umani.
Soltanto in questo modo il lavoro fornito dall’esterno potrà iscriversi all’interno di un compiuto orizzonte di senso, dissolvendo quel vissuto e quelle percezioni di precarietà ed instabilità che stanno facendo ammalare migliaia di persone.
Qual è dunque l’essenza del progresso di un paese civile?
Credo che la risposta sia questa: uno stato può essere definito civile quando tutte le sue istituzioni si sforzano di creare quelle condizioni per cui ognuno possa avere l’opportunità di cercare e conquistare la propria felicità, nella tutela dei diritti costituzionali fondamentali.
Thomas Jefferson, nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti, ha scritto l’espressione “the pursuit of happiness” e non “the right of happiness”.
La felicità è uno scopo, una conquista e non un diritto sancito per legge.
E’ molto importante per noi riconoscere tale caratteristica della felicità, perché è su questa distinzione fondamentale che si fondano la cultura meritocratica a livello individuale e le responsabilità dei sistemi sociali nel garantire reali pari opportunità per tutti.
Inoltre, tale indicazione ricorda a tutti che la felicità è una conquista che va sempre presidiata, mantenuta e mai data per scontata o attesa come qualcosa di dovuto.
E se, come canta Gianni Morandi, soltanto “uno su mille ce la fa”, non possiamo certo gettare giù dalla rupe della precarietà gli altri novecentonovantanove come se fossimo a Sparta.
Bisogna riconoscere e valorizzare i talenti ma anche incoraggiare e supportare gli altri, sviluppando quella cultura della solidarietà e della vicinanza che assicura il trionfo della dignità umana su ogni forma di speculazione, di sfruttamento e di cattiva leadership.
51 Alla presentazione del suo libro “Quarant’anni di battaglie culturali”, L’albatros, Roma 2007, Roma, 1 dicembre 2007
52 Cfr. www.freelancesunion.org
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