Dalla flessibilita’ alla precarieta’ e ritorno

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Dalla flessibilita’ alla precarieta’ e ritorno

Per evitare di ricadere in quella che qualcuno chiama “la mistica della precarietà”18, dai risvolti inutilmente demagogici, proviamo a definire in che cosa consiste concretamente il concetto di precarietà. Dal mio punto di vista, le caratteristiche che oggi contraddistinguono la condizione individuale e sociale di precarietà sono:

  • Il furto legittimato del tempo
  • La flessibilità senza controlli e a scarsa remunerazione
  • Il dolore psichico

Il furto legittimato del tempo

Le recenti leggi in materia di formazione e lavoro “giocano” con gli anni delle persone come se fossero bruscolini.
Ad esempio, il D. Lgs 276/2003 introduce tre tipologie di contratto di Apprendistato:

  1. Apprendistato per il diritto-dovere di istruzione e formazione
  1. Apprendistato professionalizzante
  1. Apprendistato per l’acquisto di un diploma o per percorsi di alta formazione

Nel primo caso, l’apprendistato ha la durata massima di tre anni, nel secondo la durata del contratto può durare da due a sei anni – sei anni! – in base a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva.

Il contratto di inserimento, che sostituisce il contratto di formazione e lavoro (CFL) ha una durata più umana – dai 9 ai 18 mesi – ma nel caso di assunti con grave handicap fisico, mentale o psichico la durata arriva fino a 36 mesi, vale a dire 3 anni.

Molto probabilmente, neanche gli astronauti della NASA hanno bisogno di così tanti anni di “apprendistato professionalizzante”per diventare astronauti!

Un altro esempio di furto del tempo riguarda chi vuole abilitarsi a fare l’insegnante nelle scuole pubbliche. Dal 2000, sono state istituite le S.S.I.S. – Scuole di Specializzazione Insegnamento Secondario – in ogni Regione di Italia, a cui si accede superando una prova preselettiva a pagamento.

Chi entra alla S.S.I.S. oltre a pagare una quota annua variabile tra i 1500,00 ed i 2500 euro, dovrà rimanerci per due anni.

In tale arco di tempo, i “sissini” verranno formati sulle metodologie di insegnamento delle materie scolastiche.

Interroghiamoci ora sui problemi che pone la questione “furto legittimato del tempo”:

  1. Ho ascoltato diversi apprendisti nelle aule di formazione lamentarsi del fatto che la natura formativa del loro contratto rimane soltanto sulla carta: lavorano come gli altri, solo che l’inquadramento è uno o due livelli inferiore a quello dei colleghi con stessa mansione o funzione
  1. Questa forzata dilatazione del tempo “formativo” è il più potente agente corrosivo della capacità progettuale della persona e va ad intaccare anche importanti aspetti psicologici come l’autostima e la motivazione
  1. Disporre di pochi soldi, l’essere rallentati nel raggiungimento di una posizione lavorativa soddisfacente, il tirare per le lunghe una condizione di instabilità.

La sintesi di queste considerazioni è che tali leggi non fanno altro che strumentalizzare un devastante stereotipo manageriale e culturale:

QUANTITA’ DI TEMPO/DURATA TEMPORALE = “GARANZIA” DI PREPARAZIONE PROFESSIONALE

La quantità di tempo dedicato alle attività formative è soltanto una delle variabili, seppur importante, del processo di sviluppo della professionalità delle persone ma non va presa in senso assoluto.

E’ come dire che la “durata” di un rapporto affettivo sia l’indicatore per eccellenza per definire la qualità del rapporto stesso. Magari due persone sono insieme da anni ma non si parlano ed ognuno dorme in una stanza diversa.

Il valore aggiunto di un qualsiasi processo di sviluppo lo si ottiene quando la qualità dei docenti/ formatori/istruttori e l’efficacia degli impianti metodologici progettati si equilibrano con il “giusto tempo” da dedicare alla formazione, evitando di allungare le brodaglie propinate alla persone e soprattutto rubandogli tempo prezioso di vita.

La flessibilità senza controlli e a scarsa remunerazione

Le leggi sul lavoro di cui stiamo discutendo, presentano anche un’altra caratteristica fondamentale: sono state ideate senza pensare – voglio sperare in buona fede – alle conseguenze e ai “rischi psicosociali” – mobbing, sfruttamento, riduzione di reddito – di cui sono portatrici. In altre parole, la devastante miopia dei legislatori si è concretizzata soprattutto nella mancanza di adeguate contromisure sociali – ammortizzatori sociali, incentivi, tutele – e nella carenza di controlli a tappeto nelle organizzazioni, soprattutto quelle gestite da “furbi” che hanno abusato ed abusano tuttora della legge.

Difficile pensare che un lavoro svolto continuativamente ogni giorno, ad orari prestabiliti, possa essere considerato un “lavoro a progetto”.

Rimango molto perplesso quando una persona laureata – magari con un master – è al suo terzo stage e/o gli vengono proposti lavori totalmente sottodimensionati.

Senza gli opportuni controlli, che sarebbero dovuti essere severi e capillari, la flessibilità si è presto trasformata in precarietà.

Tale drammatica miopia legislativa l’abbiamo vissuta in modo analogo anche con l’introduzione dell’euro.

La non gestione del passaggio dalla lira all’euro è stata, secondo me, la causa principale dell’attuale processo di poverizzazione di fasce sempre più ampie di popolazioni.

Tale pauperizzazione sociale non è dipesa tanto dalla moneta di per sé – l’euro è semplicemente uno strumento di scambio economico – quanto dall’assoluta mancanza di controlli su chi ha speculato sul passaggio lira-euro.

Nel giro di pochi mesi dall’ingresso dell’euro, l’inflazione subì un’impennata del 100% soprattutto in settori cruciali della vita delle persone come l’alimentare, l’immobiliare ed il bancario- finanziario.

E’ la teoria della zucchina al mercato rionale: è il prezzo reale pagato dalle persone reali ad indicare l’andamento dell’economia reale.

Chi doveva controllare si è reso latitante, lasciando i mercati e soprattutto i consumatori in balìa di lobby e caste.

Nel frattempo, gli “Uffici di Collocamento” ed il nostalgico rito del timbro annuale sul libretto di disoccupazione andavano in pensione per lasciare il posto ai nuovi “Centri per l’Impiego”.

Cambia il nome ma la sostanza rimane quella di un “mistero burocratico” che, dopo tanti anni, ancora non ho capito.

Vorrei che qualcuno mi spiegasse – con argomentazioni convincenti e non ideologico- manipolative – a cosa sono serviti nel passato gli Uffici di Collocamento e soprattutto quali e quanti lavori le persone riescono a trovare oggi grazie agli attuali Centri per l’Impiego.

Ho saputo di un progetto europeo che ha coinvolto nel 2007 la Caritas ed il CNA della provincia di Frosinone riguardo l’obiettivo di creare occupazione.

Sono rimasto molto perplesso quando ho ascoltato il “risultato” ottenuto da una ragazza: tre mesi di tirocinio come commessa in un negozio di scarpe, con la prospettiva di un contratto a tempo determinato.

Sono stati coinvolti l’Unione Europea – ed utilizzati i relativi fondi – , la Caritas ed il CNA per che cosa?

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Per un lavoro di commessa – con tutto il grande rispetto e stima che nutro per questi lavoratori – per un impiego che può essere tranquillamente cercato e trovato presentandosi direttamente nei negozi o al massimo rispondendo alle tradizionali inserzioni!

Sempre a proposito di uso delle parole e di “cambiamenti strutturali”, oggi non parliamo più di lavoro interinale ma di “somministrazione del lavoro” e di “lavoratori somministrati”.

Questo linguaggio medicinale esprime in modo ancora più eclatante la spersonalizzazione evocata dall’espressione “risorse umane”.

Il lavoro è somministrato come una flebo, ti tiene in vita!

Stiamo dunque vivendo, o sarebbe più opportuno scrivere subendo, la micidiale convergenza di due fattori negativi: da un lato, leggi sulla flessibilità attuate senza controlli e/o opportune modulazioni sociali e dall’altro, la caduta verticale del potere d’acquisto nell’area dell’euro.

Oltre al danno, subiamo anche la beffa comunicativa – di nuovo ritorna il ruolo del linguaggio – di sentirci dire che “l’euro è forte” mentre i “salari” – ancora viene utilizzato questo termine da fine Ottocento – sono insufficienti.

R. Brayton Bowen, un noto consulente americano intervistato alcuni anni fa dalla Harvard Management Update sostiene che:

“La logica del business ha portato a questo: il maggior utilizzo di collaboratori a termine, occasionali, flessibili è la conferma che viviamo in una società ‘usa e getta’. In pratica, i lavoratori vengono considerati delle commodity a perdere, anziché le preziose e coccolate risorse di cui parlano in modo non sincero i Ceo”.19

Persone dunque come “vuoti a perdere”, neanche tanto facilmente riciclabili in Italia dal momento che il mercato del nostro Paese – in termini di mobilità sociale ed opportunità meritocratiche – è distante anni luce da quello degli Stati Uniti, dell’Australia o dell’Inghilterra.

Francesco Delzio, nel suo già citato libro, definisce i trentenni e i quarantenni di oggi come la “Generazione Tuareg”, persone formate in un deserto “causato dal rapido ed imprevedibile dissolvimento delle certezze che avevano caratterizzato il Novecento, costretti a vagare in un mare senz’acqua come i nomadi del deserto, privi delle bussole di riferimento che avevano guidato padri e nonni”.

Delzio invita tutti i Tuareg nostrani – nelle cui tribù si vanno aggiungendo nel frattempo anche schiere di ventenni e di cinquantenni – ad anteporre l’ “ottimismo della volontà” al “pessimismo dell’intelligenza”, gramscianamente parlando, come scrive l’autore.

In altre parole, secondo Delzio ma non solo lui20, la condizione di flessibilità è propedeutica al raggiungimento della felicità.

Del resto, il sottotitolo del libro è chiaro: “Giovani, flessibili e felici”.

Bisogna dar atto a Delzio che il suo libro presenta una serie di riflessioni argomentate in modo ironico ed efficace. Tuttavia, ci sono alcune considerazioni critiche che mi sento di fare.

Punto 1)

La metafora dei Tuareg – per quanto suggestiva – non regge al confronto con la realtà. I veri nomadi del deserto sono persone perfettamente integrate nel loro ambiente, conoscono come sopravvivere nel deserto meglio di chiunque altro ed hanno sviluppato capacità di orientamento attraverso secoli di tende in movimento.
Chi invece oggi deve affrontare il mercato del lavoro assomiglia più ad un gladiatore che ad un tuareg. Le persone – ovviamente quelle che non hanno raccomandazioni o “spinte” particolari – sperimentano un’enorme fatica ad integrarsi e ad orientarsi in questo “deserto”.
Il mercato attuale evoca più l’immagine di un’arena dove spesso si combatte la “guerra dei poveri” che una meravigliosa distesa desertica da cavalcare impavidi e belli come Lawrence d’Arabia.

Punto 2)

Sempre a proposito di flessibilità, l’autore porta avanti un ragionamento che mi lascia a dir poco perplesso.
Delzio scrive a pag. 54 del suo libro:
“La flessibilità (...) può avere molte facce.

La Generazione Tuareg ha conosciuto in Italia solo quelle più problematiche, legate alla fine del posto fisso e dei percorsi lineari di carriera e di previdenza.

Non ha potuto conoscere, finora, le opportunità che derivano dall’altra faccia della flessibilità: la possibilità di avere un mutuo dalla banca per l’acquisto della casa anche con una sequenza di contratti a termine, o quella di pagare meno l’abbonamento ferroviario o della metro, l’energia elettrica o il gas”.

Ho evidenziato in grassetto il concetto incriminato. Tanto per cominciare, il mutuo di una banca non rappresenta un vantaggio per chi lo accende ma è un servizio che la banca ti vende dietro precise garanzie di rimborso e di ipoteche.

Il mutuo è un prestito contratto da chi non ha la liquidità necessaria per pagare un immobile in contanti, ritrovandosi nel tempo ad acquistare la casa ad un prezzo enormemente maggiorato a causa degli interessi.

E se non paghi, la banca si prende la casa e/o il bene dato in garanzia – quasi sempre di proprietà dei genitori o della famiglia.

Il vantaggio è quindi tutto della banca e non delle persone che si accollano il mutuo con il 100% del valore dell’immobile, arrivando drammaticamente anche a quaranta anni.

Tuttavia il problema non è rappresentato tanto dai mutui in sé quanto piuttosto dal lassismo legislativo in merito all’aumento delle retribuzioni e dei compensi erogati ai lavoratori.

Se come lavoratore dispongo di una retribuzione decente, magari arrivo ad un mutuo di dieci o massimo quindici anni.

Oggi invece accade che un numero sempre più elevato di persone non riesce a star dietro ai mutui e alle altre spese è perché il “potere d’acquisto” delle retribuzioni si è trasformato in “impotenza d’acquisto” e per alcuni, arrivare alla fine del mese è diventata una vera e propria corsa ad ostacoli.

L’essenza della precarietà non è dunque di natura contrattuale ma retributiva e sistemica.

Un lavoro a progetto o interinale deve prevedere una retribuzione mensile maggiorata di almeno il 30% rispetto a quella di un dipendente a tempo indeterminato.

Tutti i sistemi sociali devono costituire una valida rete di protezione per le persone che fanno le acrobazie sul mercato del lavoro.

Un’altra assurdità consiste nell’ indicare come vantaggio il pagare meno l’abbonamento ferroviario, piuttosto che le bollette delle utenze.

A parte le recenti speculazioni sul prezzo della benzina e del gasolio che hanno fatto saltare ogni decenza, non credo proprio che le aziende della luce o del gas facciano il censimento dei precari prima di inviare le loro bollette e pratichino uno sconto per lo “status” di precario.

In ogni caso, non è pagando di meno un abbonamento ferroviario che risolvo il problema della redditività del lavoro e della qualità della vita.

Punto 3)

Ragionare in termini di “generazione” o di “giovani” ci fa ricadere in stereotipi culturali che ostacolano la risoluzione dei problemi piuttosto che indicare vie risolutive.
Chi può definirsi “giovane”? La giovinezza è un fatto anagrafico? Quale valore aggiunto offre il categorizzare alcune fasce d’età – trentenni e quarantenni – nell’ambito del concetto di “generazione”?

Punto 4)

Un altro pericoloso stereotipo culturale che ravviso nel testo è quello del confronto tra “le certezze di prima” – con riferimento al secolo passato – e le “incertezze di adesso”.

Il Novecento è stato il secolo più drammatico nella storia del genere umano e le “certezze di nonni e padri” di cui parla Delzio sono sempre molto relative.

Non credo che i rifugiati nei ricoveri sotterranei, durante i bombardamenti aerei della Seconda Guerra Mondiale, avessero molte certezze.

Oppure, su un versante meno drammatico ma egualmente significativo – basta leggere il libro “Gli industriali si confessano” di Piero Ottone, pubblicato nel 1965 da Vallecchi Editore Firenze, vale a dire nel pieno degli anni della Dolce Vita e del Boom economico, per rendersi conto che i problemi e le insicurezze legate al lavoro e ai mercati sono sempre esistite.

La storia si ripete, sotto altre “guise” o forme come dice il nostro G.B. Vico, ma la sostanza rimane pressoché invariata.

Credo tuttavia che, tutto sommato, oggi stiamo meglio di ieri, se non altro per le comodità tecnologiche di cui disponiamo e per l’accesso alle informazioni e alla conoscenza ad un livello straordinario, come mai si era verificato nella storia.

Per tanto, ogni argomentazione che contrapponga una ipotetica “età dell’oro delle certezze” ad una attuale dell’incertezza, rischia fortemente di ricadere inevitabilmente in uno stereotipo.

In conclusione, se da un lato possiamo concordare sul fatto che non bisogna indulgere pessimisticamente nella mistica della precarietà, è altrettanto vero che è necessario smetterla con la mistica della flessibilità.

A questo punto, chiariamo una volta per tutte il concetto: il flessibile è semplicemente un tubo della doccia , la persona è un mondo da rispettare, valorizzare e considerare come fine ultimo di tutte le attività umane

Il dolore psichico

Il titolo originale del saggio di Richard Sennett, tradotto in italiano con “L’uomo flessibile”, è “The corrosion of character” ed è indicativo del concetto chiave che il professore della London School of Economics ha voluto presentarci con il suo libro: il nuovo capitalismo corrode il carattere, ci fa perdere i nostri connotati psicologici e di fatto ci snatura.

“Il tratto caratteristico dell’incertezza attuale è il fatto che esista senza che ci siano disastri storici incombenti. Al contrario, la sua esistenza è integrata nella vita quotidiana di un vigoroso capitalismo: si dà per scontato che l’instabilità sia normale (...).

Forse la corrosione del carattere è una conseguenza inevitabile di questo stato di cose. Il ‘basta con il lungo termine’ scombussola le azioni nel lungo periodo, allenta i legami di fiducia e di impegno e separa la volontà dalle azioni pratiche”. 21

Il libro di Sennett è del 1998 e mi chiedo, a distanza di dieci anni, a quale livello di profondità sia ora arrivata la corrosione dei nostri caratteri.

Quando la volontà delle persone si disconnette dalla possibilità di agire e quando a fronte di un aumento delle limitazioni diminuiscono le opportunità, lo stato mentale che si viene a creare è quello dell’abulia, della frustrazione e della rassegnazione.

Una persona diventa “risorsa umana” quando è spettatore passivo dei propri bisogni senza poter far nulla per intervenire.

Come esemplifica lo stesso Sennett:

“Il paziente al quale il medico non spiega nulla, lo scolaro che deve imparare a memoria come un pappagallo, l’impiegato completamente ignorato sono tutti diventati spettatori dei loro propri bisogni, oggetti manipolati da un potere superiore” 22.

Tale miscuglio psicologico ed emotivo rappresenta un cocktail venefico micidiale per il bisogno di rispetto da un lato e per il desiderio di progettualità e creatività dall’altro, insiti nella natura umana.

I livelli di stress sociale sono in forte aumento: basti osservare il modo di guidare di certe persone, i volti incupiti nelle metropolitane o nelle strade, il parossistico sciamare nei megacentri commerciali in preda ad un sempre più crescente voieurismo delle merci – le vetrine si guardano soltanto perché purtroppo ci sono sempre meno soldi per acquistare i prodotti!

Anche il susseguirsi di manifestazioni di piazza, di aggressioni, di stupri, di violenze e di scioperi selvaggi rappresentano chiari segnali di forti disagi che il più delle volte rimangono inascoltati ed incompresi.

A proposito di girotondi e manifestazioni di piazza all’insegna della parolaccia, credo che una protesta senza progetto crei pericolose derive devianti, distruttive e fomenti situazioni che possono sfociare anche nella violenza terroristica.

Le parolacce, le offese personali sono del resto già esse stesse una forma di violenza che nasce e cresce in una palude di aggressività, distruttività ed ignoranza, i cui miasmi non fanno altro che ammorbare gli animi delle persone.

Senza un orientamento al problem solving, alla formulazione di proposte concrete, le manifestazioni si risolvono, nel migliore dei casi, con un “molto rumore per nulla”.

Tuttavia, quello che adesso ci preme sottolineare è il dolore psichico provato da tutti coloro che soffrono di precarietà. Ma attenzione: la precarietà non è un virus che si contrae attraverso un contagio od un’entità aliena cattiva che viene da altri mondi per distruggere le nostre vite.

La precarietà va intesa come l’effetto o il risultato della pessima gestione dei sistemi sociali, dallo Stato alle aziende, passando per le scuole e le strutture sanitarie.

Naturalmente, ancora una volta, non dobbiamo né generalizzare né ricadere in un pessimismo cosmico che ci condurrebbe ad un inutile nichilismo.

Tuttavia, bisogna rendersi conto delle enormi responsabilità che politici e manager hanno nell’influenzare/condizionare la vita quotidiana delle persone.

Cristian Carrara, portavoce del Forum Nazionale dei Giovani, scrive:

“E’ chiaro che un cambiamento così radicale del rapporto con il proprio lavoro non può non portare ad un pericoloso stravolgimento della nostra società.

Il primo rischio è che si possa aprire un conflitto tra i garantiti, coloro che hanno cioè un posto fisso e godono di forti tutele, e i non- garantiti, che rischiano di trovarsi ogni tre mesi senza un lavoro e comunque privi di qualsiasi tutela verso il proprio futuro previdenziale. (...)

Ma almeno un altro rischio non può non farci riflettere. Il fatto che i giovani rimangano in questa specie di “apartheid permanente” porta necessariamente conseguenze negative”.23

Carrara parla di “apartheid permanente” e credo che una delle conseguenze negative sia proprio quel dolore psichico di cui soffrono le persone che lottano per uscire da una condizione di precarietà.

Le persone, soprattutto quelle che non hanno la possibilità di usufruire di “ammortizzatori parentali” – l’aiuto dei genitori e/o dei nonni – provano la sgradevole sensazione dell’insularità psicologica, del sentirsi esclusi o ai margini del gran banchetto della società grassa e opulenta.

La mente esiliata nel regno del provvisorio ed affetta dalla cronica mancanza di riferimenti utili ad orientarsi, vive in una condizione permanente di spaesamento ed instabilità.

Chi cerca lavoro sperimenta la “fatica di Sisifo” e/o avverte la netta sensazione di correre sul tapirulan, il che va bene nel caso in cui la persona voglia dimagrire, altrimenti sono tutti sforzi inutili e costosi sul piano psicologico.

Tuttavia, soltanto una sana combattività personale può costituire l’ efficace antidoto al dolore psichico provocato dalla precarietà.

L’imperativo categorico è: uscire ogni giorno di casa e continuare a bussare alle porte finché qualcuno non ci aprirà.

E’ necessario il continuo presidio dell’autostima, ultima roccaforte della nostra salute mentale, da proteggere con copiosi strati di vernice anticorrosione.

Bisogna farcela anche senza santi in paradiso, sapendo che c’è una speranza anche nel calendario: la festa dei lavoratori rimane il canonico primo maggio mentre quella dei precari è stabilita per il 15 agosto, giorno dell’Assunzione!

18 Francesco Delzio nel suo libro “Generazione Tuareg. Giovani, flessibili e felici”, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli (CS), 2007

19 Citato da: Roberto Merlini nel suo articolo “Come gestire i dipendenti difficili”, in l’Informatore INAZ, Anno XXXI, n. 24 del 31 dicembre 2007

20 Cfr. “Precari e contenti” di Angela Padrone, Edizioni Marsilio, Padova, 2007

21 Richard Sennett, “L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale”, Saggi Universale Economica Feltrinelli, Milano, quarta edizione 2003

22 Richard Sennett, “Rispetto. La dignità umana in un mondo di diseguali”, Il Mulino, Bologna, 2004

23 In “Vite”, Mensile di informazione a cura delle ACLI di Roma – Anno I, N. 1, Maggio 2006

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