Il ritorno del Marchese Del Grillo

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Il ritorno del Marchese Del Grillo

“Cambi le parole, cambi il senso del mondo”.

La frase è uno dei tanti cavalli di battaglia di Beppe Grillo durante i suoi spettacoli.

Abbiamo approfondito l’importanza delle parole e l’analisi psicologica del linguaggio ha stimolato riflessioni tanto interessanti, quanto destabilizzanti.

Ad esempio, mi inquieta sempre ascoltare una persona che, riferendosi alla sua esperienza lavorativa, la commenti con un: “Mi hanno segato le gambe”.

Rimango turbato perché questa espressione mi evoca l’immagine degli squartamenti che venivano fatti nel medioevo.

Certo, “segare” una persona sul lavoro è molto meno cruento di quella tortura medioevale ma l’impatto emotivo del linguaggio e del vissuto rimane comunque profondo.

Nello slang americano, licenziare le persone senza troppi complimenti si dice “to fire people”, letteralmente bruciare le persone.

Interessante vero? Mi vengono in mente scene della Roma di Nerone e Diocleziano quando bruciavano i cristiani crocefissi lungo i cigli delle strade.

Anche “far fuori” qualcuno non è niente male: qualche manager novello Al Capone si compiace ancora nell’utilizzare tale espressione in qualche colloquio o riunione aziendale.

Insomma, nell’epoca attuale, il linguaggio è la finestra sul mondo delle “risorse umane”, lo specchio fedele nel quale si riflettono tendenze, modi di pensare, di parlare e di agire.

“Io so’ io, e voi non siete un cazzo”, esclama beffardamente Alberto Sordi nei panni del Marchese Onofrio Del Grillo, nell’ indimenticabile film di Mario Monicelli (1981), ai suoi “compagni di bettola” che vengono arrestati mentre lui invece viene liberato ed ossequiato dalle guardie.

Anche oggi esistono diversi “Marchesi del Grillo” nella politica, nel management delle alte sfere ed in quelle più modeste, ma non per questo meno importanti, degli uffici, dei reparti, delle scuole e dei magazzini.

Esistono manager che si sentono profeti in contatto con la divinità, novelli faraoni che si circondano di un alone di mistero e di inavvicinabilità.

Oppure troviamo il manager rigido che assume psicofarmaci e continua a credere che lavorare e far lavorare dodici ore al giorno sia segno di grande efficienza e motivo di merito.

Troviamo anche manager che, quando si sentono attaccati da una critica o vengono scoperti nella loro pochezza, reagiscono nelle riunioni facendo volare, oltre parolacce e bestemmie, anche oggetti.

Poi possiamo incontrare chi adotta uno stile manageriale del tipo “IO ho vinto – voi avete perso”: se viene raggiunto un risultato è merito mio, se non viene raggiunto è colpa dei miei collaboratori.

A questo proposito, colgo lo spunto per un suggerimento a tutte le direzioni del personale: è deleterio dare l’incentivo o il premio produzione soltanto al capo perché la percezione dei suoi collaboratori sarà: “Noi ci siamo fatti il mazzo e lui/lei si prende i soldi!”.

Qualche tempo fa, erano circa le 8.00, sono passato vicino un supermercato.

Alcuni addetti stavano scaricando merce da un furgone.

Ad un certo punto, il responsabile urla ad uno di loro: “Ahò, vedi de spinge sennò te spingo io oggi!”.

Forse l’addetto era troppo lento per i suoi gusti ma, osservando da qualche minuto la scena, non mi sembrava.

Molto probabilmente, era proprio la sua modalità di rivolgersi alle persone.

Parolacce, insulti, modi e linguaggi pesanti sono molto più diffusi nei luoghi di lavoro di quanto si pensi.

Un tale è stato condannato in Corte d’Appello perché aveva ingiuriato un suo sottoposto con le seguenti parole: “A Prunè 14, m’ho mai rotto li cojoni, io voglio sapè te che cazzo ci stai a fare qui dentro che non fai un cacchio...”.

Secondo questo tizio, che ha fatto poi ricorso in Cassazione, l’espressione utilizzata non aveva valore di ingiuria ma semplicemente rientrava nel novero di una semplice critica – seppur colorita – che stigmatizzava un comportamento del sottoposto che si era inopportunamente intromesso in una discussione di lavoro.

La Cassazione gli ha dato torto, per fortuna.

Tuttavia, ci rendiamo conto del degrado umano e psicologico presente in diversi luoghi di lavoro e non solo.

E’ dunque giunto il momento di cambiare approccio, mentalità, modi di comunicare e di gestire, iniziando, o meglio, tornando a trattare gli esseri umani come persone.

E’ sconcertante ascoltare ancora oggi nelle aule di formazione ragazzi di venti-venticinque anni che utilizzano l’espressione “Ho lavorato sotto padrone”.

Oppure sentirsi raccontare esperienze di questo tipo:

  • “Il primo giorno che sono arrivato al lavoro, il mio capo mi ha detto: qui dentro sei solo un numero, se te ne vai c’è una fila di persone pronte a sostituirti”.
  • “Mi avevano trasferito in un’altra rimessa ma operativamente lavoravo ancora in quella precedente. Un giorno il mio capo mi telefona per dirmi che dovevo fare dello straordinario di sabato; dal momento che non ero obbligato a farlo, gli dissi che preferivo rimanere a casa in famiglia e poi aggiunsi che ormai dipendevo dal capo della nuova rimessa. Lui mi risponde, testuali parole, tu sei mio, finché lavori qui dentro decido io cosa devi fare!”.

Evidenzio in grassetto il “tu sei mio” per sottolineare la patologia mentale di cui è affetto quel “capo”.

Possiamo facilmente notare che il linguaggio non è semplicemente uno specchio od una rappresentazione della realtà ma è il mezzo attraverso cui gli uomini stabiliscono le reciproche posizioni sociali e le conseguenti relazioni di potere.

Il ritorno del Marchese Del Grillo

 

E’ così da sempre. La Storia è fin troppo piena di “Vostra Maestà”, “Sua Santità”, “Eminenza”, “Vossignoria”, “Onorevole”, “Eccellenza”, “Sig. Direttore”. Tuttavia, oggi ne abbiamo abbastanza dell’abuso di potere, dell’arroganza e dell’autoritarismo spicciolo.

Non siamo materie prime da smerciare a buon mercato, né vogliamo essere indicati e considerati alla stregua di un elemento chimico con simbolo “HR”.

La roboante espressione “La direzione centrale delle risorse umane” deve essere sostituita con una più rispondente alla nostra umanità e magari anche più semplice come ad esempio “Ufficio Gestione e Sviluppo delle Persone”, “People Developement Office”, “People Manager”.

Cambiando le parole, iniziamo a cambiare la mentalità manageriale innovandola veramente nei contenuti e soprattutto nelle quotidiane modalità di gestione.

In alcuni articoli, libri o convegni, mi è più volte capitato di leggere o ascoltare questa espressione:

“In ogni organizzazione tesa all’eccellenza, i manager sono tenuti ad utilizzare al meglio le risorse – finanziarie, tecniche ed umane – che hanno a disposizione”.

A parte la scontatezza dell’espressione tipo “consiglio della nonna”, l’aspetto che più mi colpisce della frase è che le risorse umane sono collocate in fondo, al terzo posto, mentre al primo ci sono quelle finanziarie.

Prima i soldi, poi le persone.

L’umano è solo un aggettivo e neanche il più importante, rispetto al sostantivo “capitale”.

L’espressione sopra riportata è veramente emblematica della nostra epoca.

Come vedremo invece nel paragrafo successivo, le persone sono il cardine intorno al quale girano le organizzazioni ed i sistemi sociali.

Senza i cardini o con i cardini arrugginiti una porta cade a terra o stenta a girare.

Persone precarie rendono precarie le aziende dove lavorano, aziende precarie rendono precario il Paese dove operano, uno Stato precario è colonizzato facilmente dagli altri Stati più competitivi.

Cambiare le parole significa, in conclusione, cambiare prima i percorsi mentali che portano a formare certe opinioni e convinzioni negative e poi, di conseguenza, i comportamenti manageriali di tutti i giorni, passando dalle parole ai fatti.

Per Jeffrey J. Fox, autore del libro "Come essere un Grande Capo", le parole sono come pietre, anzi come proiettili.

Leggiamo il seguente commento tratto dal suo libro:

“Chi maneggia armi, si tratti di un tiratore scelto o di un pistolero, sa molto bene che prima di fare fuoco occorre prendere la mira con molta calma, mantenendo il massimo controllo.

I tiratori intelligenti sanno che un colpo affrettato può costare loro la vita.

Allo stesso modo, un capo intelligente sa che una frase non ponderata può ferire come un proiettile.

Badate sempre a ciò che dite e come lo dite.

Le vostre parole hanno un peso enorme, quindi parlate con grande prudenza.

Un lavoratore dipende interamente dal suo capo sotto diversi aspetti: retribuzione, direttive di lavoro, informazioni necessarie, conferma dell'assunzione dopo il periodo di prova, possibili avanzamenti di carriera.

Va da sé, pertanto, che i dipendenti ascoltano con la massima attenzione le parole del loro capo (purtroppo, i dipendenti ascoltano molto di più il capo di quanto quest 'ultimo non ascolti loro!) Più un capo occupa una posizione elevata nella gerarchia aziendale e maggiore forza hanno le sue parole.

Ciò che dice il capo influisce direttamente su ciò che i dipendenti pensano di se stessi, degli altri colleghi, dell'azienda in generale e persino dei clienti di quest' ultima.

Non parlate di un dipendente con un suo collega di uguale livello; non screditate un vostro superiore davanti ad un vostro subalterno; non criticate un cliente, perchè cosi facendo influireste sull'atteggiamento dei vostri dipendenti nei suoi confronti.

Il cliente oggetto delle vostre critiche, infatti, perde immediatamente valore, riceve un servizio di qualità inferiore o un trattamento comunque insoddisfacente, e la perdita di un cliente rappresenta un grave danno per l'azienda, e quindi per il capo e per il dipendente.

La diceria, quel proverbiale "pare che" o "si dice che", quel sistema di comunicazione interna presente in tutti gli uffici e particolarmente attivo, viene sempre innescata da qualche commento indiscreto che un capo si è lasciato sfuggire in presenza di un subalterno. Il grande capo pondera invece molto a lungo le proprie parole prima di fare commenti.

Un grande capo non può permettersi di svelare avventatamente dei segreti o di lasciarsi andare a pettegolezzi, né deve lasciarsi andare a dire alcunché che possa, anche non intenzionalmente, essere male interpretato.

Non può neppure lasciarsi sfuggire un commento en passant, appena sussurrato.

Per un dipendente, un capo che sussurra è come un leone che ruggisce”.

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