Riflessioni: Il valore delle persone
oltre l’eta' anagrafica

Corso di formazione

Accedi online a tutti i materiali didattici dei corsi di formazione, ai videocorsi e/o partecipa ai corsi online.

Riflessioni: Il valore delle persone oltre l’eta' anagrafica

In questi ultimi trent’anni il ruolo e la considerazione delle persone che operano nel mondo del lavoro ha subito profondi cambiamenti che vanno di pari passo con le trasformazioni della società e che hanno avuto sia segni positivi sia negativi.

Il termine “personale” in azienda è sostanzialmente ripreso da una visione contabile che vede i dipendenti di un’ impresa una semplice voce di costo, al pari dell’energia, delle materie prime, dei mezzi tecnici e del capitale.

Ciò deriva da una visione “tailoristica” che vede l’organizzazione dell’impresa come divisione del lavoro, parcellizzazione di compiti semplici e ripetitivi, come nella catena di montaggio, che possono essere indifferentemente attribuiti a degli addetti – operai/ impiegati – suddivisi per mansioni ed in queste inquadrati in modo indistinto.

Se da un lato questa impostazione, che presuppone una scarsa valorizzazione dell’individuo, favorisce la sostituibilità dei singoli ed il predominio dell’organizzazione, dall’altro implica il fatto di considerare la forza lavoro nel suo insieme in modo indistinto e subordinato, ne favorisce l’alterità e la contrapposizione.

La “manodopera” si dà quindi un’organizzazione propria che ha una sua dignità ed una sua rappresentanza e si pone in dialettica come forza collettiva, fornitrice di una prestazione, contrattando attraverso strumenti collettivi, come i contratti di lavoro e gli accordi sindacali, le proprie condizioni di lavoro.

Ciò si sedimenta in un’organizzazione di “classe” – classe operaia, classe impiegatizia, dirigenza – che fornisce anche un’identità ai suoi appartenenti che vengono identificati addirittura per il loro abbigliamento – tute blu vs colletti bianchi – o per la loro collocazione logistica – Piani alti/bassi vs. Fabbrica o Magazzino.

L’iter aziendale viene misurato con modalità quantitative – scatti di anzianità, automatismi – e l’anzianità insieme all’esperienza accumulata costituiscono un “valore” fondante dell’organizzazione non a caso chiamata “gerarchico – funzionale”, da “geros” che in greco significa anziano.

Ai livelli più alti della scala gerarchica si trovano in genere i più anziani, che sono anche gli “esperti”, coloro che possiedono il “mestiere”, ossia quell’insieme di norme e conoscenze spesso implicite dei comportamenti e dei saperi aziendali.

I processi di deindustrializzazione e dematerializzazione del prodotto portano, a partire dagli anni ottanta, ad una progressiva crisi del modello “fordista” sopra descritto.

Il modello che s’impone è quello manageriale, che abbandona il paradigma del rispetto delle gerarchie e della divisione per classi e si basa prevalentemente sul raggiungimento del risultati.

Si assiste quindi ad una “deregolamentazione” del rapporto lavorativo.

A fianco alle prescrizioni previste dalla normativa contrattuale di tipo generale si introducono strumenti di gestione individuale del rapporto di lavoro – incentivi individuali volti a premiare comportamenti giudicati utili per l’impresa, introduzione di simbolismi per differenziare il diverso livello di status raggiunto attraverso una prestazione giudicata soddisfacente come bigliettini da visita, carte di credito, arredamento.

Ma non si tratta solo di una questione di risultati, viene considerato anche il grado di appartenenza agli obiettivi più impliciti dell’azienda, alla cosiddetta “cultura aziendale”.

Le persone vengono ora considerate come “Risorse Umane”.

La risorsa è quindi un qualcosa che ha valore per l’azienda, un giacimento, che questa può avere la discrezione di utilizzare o meno a seconda dei propri obiettivi.

Si parla diffusamente delle “risorse pregiate”, ossia di quegli individui sui quali per caratteristiche e disponibilità si ritiene di dover puntare per ottenere dei risultati in termini di efficienza/efficacia.

La risorsa però può anche essere scartata come non utile, accantonata se non in linea con gli obiettivi manageriali e con la strategia contingente.

E’ l’epoca in cui si affaccia la strategia dello “svecchiamento”: old out – young in. I giovani sono percepiti come più creativi, plasmabili, infaticabili.

Le nuove procedure informatiche e le prassi di gestione consentono di governare l’azienda con una minore quantità di lavoro e con una maggiore formalizzazione.

S’impone un modello di organizzazione snella e votata al risultato che ritiene tutte le vecchie strutture di controllo e la stessa gerarchia un costo insopportabile per l’azienda.

Si apre la guerra ai capi intermedi, spesso identificati con gli anziani, che presidiano posizioni di potere, connesse coi processi produttivi operativi, che entrano sovente in contrasto con le strategie finanziarie dei vertici.

Avviene una profonda ristrutturazione del mondo del lavoro di cui subiamo ancora le conseguenze che, se da un lato rompe schemi obsoleti, dall’altro porta alla rottura del contratto implicito tra le parti.

La tensione assoluta verso il risultato contingente che in un mercato maturo è più facile ottenere con la riduzione dei costi piuttosto che con l’aumento del fatturato, la necessità di soddisfare azionisti che nulla hanno a che vedere con il ciclo produttivo e che in mancanza di risultati possono orientare altrove i loro investimenti, la modalità delle stock options che mette nelle mani nel management le leve finanziarie delle aziende, fa si che cada qualsiasi remora morale fino ad arrivare agli abusi degli scandali finanziari dell’inizio degli anni 2000 come nei casi Enron, Parmalat, Cirio.

Riflessioni: Il valore delle persone oltre l’eta' anagrafica

 

Nelle ristrutturazioni che seguono alla crisi recessiva dell’economia mondiale, le “risorse” di cui si ritiene si possa far a meno e quindi collocate “al di fuori dal perimetro aziendale” sono spesso quelle di maggior costo e con maggior esperienza.

I lavoratori anziani sono visti come risorse inutilizzabili rispetto agli obiettivi contingenti, portatori di istanze e valori in contrasto con le mutevoli esigenze che la situazione impone, zavorra da abbandonare al più presto, pena la sopravvivenza dell’azienda. Il metodo spesso utilizzato è quello della ghettizzazione e della colpevolizzazione di tali lavoratori che vengono accusati semplicemente di costituire un costo e quindi un problema.

Di qui il loro isolamento e spesso la loro umiliazione e, in fondo al percorso, la richiesta di una resa, di una lettera di dimissioni o la minaccia di un licenziamento “infamante”.

In alcuni casi, si ricorre al mobbing, in altri casi ci si limita ad “esternalizzare” e quindi ad espellere il ramo d’azienda indesiderato, affidandolo alle “amorevoli cure” di nuovi proprietari, spesso padroni di imprese più piccole e senza tutela, ai quali si chiede di fare il lavoro sporco, in questo purtroppo supportati da una legislazione del lavoro che tende a tutelare sempre di meno i lavoratori. In poche parole, “business is business”.

Un’ intera generazione cresciuta come risorsa umana, col mito della meritocrazia e della competenza, viene paradossalmente messa da parte proprio per l’ eccessiva esperienza e per l’attaccamento alla propria identità lavorativa.

E veniamo all’ultima fase.

L’impresa, ormai totalmente destrutturata e dematerializzata, che ha trasferito altrove le proprie unità produttive, che ha ridotto all’osso i costi di produzione, che nel frattempo al posto dei vecchi dipendenti ha assunto personale precario e mal retribuito, si accorge ad un tratto di essere più debole.

Non riesce a competere con i costi delle “tigri asiatiche”, ma si accorge anche che la qualità del prodotto sta degradando e che, non disponendo più al proprio interno di persone con approfondita conoscenza dei mercati di riferimento, non riesce più ad essere così efficace nel capire e nel soddisfare le esigenze della clientela.

Occorre cominciare a pensare il patrimonio umano dell’azienda non tanto come “personale” da pagare o “risorsa da sfruttare”, ma come leva strategica su cui puntare.

Le persone sono portatrici di propri valori, proprie motivazioni, proprie capacità che sono pronte a mettere a disposizione dell’impresa se questa è in grado di valorizzarle per quello che sanno e possono fare e di metterle in condizione di operare.

Si tratta quindi di operare una transizione da una visione burocratica e meccanicistica che legava in modo predeterminato posizione, persona e compiti assegnati, ad un'altra di tipo organicistico in cui la persona è chiamata a reinterpretare continuamente il proprio ruolo e produrre rapidamente, in vista del risultato, nuove soluzioni rispetto alla situazione contingente.

In questo scenario, caratterizzato da una crescente instabilità ambientale, i modelli organizzativi devono far leva sulle persone e sulle loro competenze, individuali e di gruppo, per raggiungere quella stabilità precedentemente rappresentata dalle norme prescrittive e dalle gerarchie.

Di fronte alla centralità strategica di che cosa le persone sanno fare e di come lo fanno diventa necessario ripensare tutto il sistema aziendale intorno alle persone e alle proprie competenze.

In questo ambito le esperienze, aziendali e personali, diventano un valore e un “asset” competitivo per l’azienda. Un genitore single è presumibilmente più disponibile al “part time” di un uomo sposato, una persona con problemi di salute saprà comprendere meglio e colloquiare con clienti disabili, un adulto sarà più affidabile di molti colleghi più giovani nel rispettare gli orari di lavoro o gli appuntamenti.

In altre parole, la diversità in azienda può essere un moltiplicatore di opportunità in quanto permette alle organizzazioni di valorizzare le competenze personali maturate nella vita privata dei singoli dipendenti che nessun corso di formazione può insegnare.

Si aggiunga inoltre che anche la composizione della domanda nel frattempo sta cambiando, diventando sempre più diversificata ed esigente e lontana dagli stereotipi del marketing del tipo “Milano da bere”.

Si tratta di un trend inevitabile.

Nel 2020 gli over 40 saranno il 50 % della popolazione e le aziende saranno sempre più orientate a cercare tra di loro la forza lavoro. Inoltre, dovendosi rivolgere ad una clientela a sua volta sempre più anziana, le imprese avranno sempre maggior bisogno di capirne e soddisfarne le specifiche esigenze – dalla salute alla cura del corpo, dagli hobbies ai desideri di crescita culturale.

E’ intuitivo pensare che una persona matura possa rispondere in modo più competente alla richiesta di consigli su articoli di uso comune di quanto possa fare un commesso giovane, e quindi, in questo caso è molto probabile che un commesso “over” faccia più fatturato di un suo “giovane collega rampante", rispetto al target clientela “over”.

Le aziende che dal canto loro hanno dimostrato di essere miopi, bruciando alcune delle professionalità migliori che avevano al proprio interno per seguire delle prospettive di breve periodo, si stanno rendendo conto che i tagli indiscriminati e gli atteggiamenti preconcetti sono dannosi.

Il giovanilismo si sta dimostrando per quello che è: un’ideologia che scricchiola e che come tutte le impostazioni preconcette produce gravi danni.

Ora che il “brutto tempo” sta passando e che, anche grazie all’impegno di ATDAL – Over 40 , lo stereotipo si sta abbattendo, emergono schiere di lavoratori maturi che, con grande vitalità, si organizzano per poter meglio competere sul mercato del lavoro.

20

+

anni di esperienza

50

+

formatori e consulenti aziendali senior

250

+

corsi in aula / online e team building a catalogo

500

+

aziende Clienti

15000

+

partecipanti