Le proposte operative

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Le proposte operative

Di seguito sono riportate una serie di proposte operative indirizzate alle classi dirigenti del nostro Paese, siano esse politiche o manageriali, con l’augurio che vengano recepite come quello che sono: un sentito invito a migliorare concretamente lo stato delle cose.

In tal modo, tali classi dirigenti si faranno protagoniste di cambiamenti che aumenteranno il livello di benessere e qualità della vita di ognuno di noi, nel rispetto dei diritti costituzionali fondamentali.

A parte infatti l’Art. 1 della Costituzione che vuole l’Italia essere una Repubblica fondata sul lavoro e non sull’assenza di lavoro o peggio sullo sfruttamento, l’Art. 3 evidenzia come qualsiasi legge che discrimini i lavoratori in tipici ed atipici o li faccia sentire di serie A, B o C o sia causa della precarizzazione della vita delle persone, è fondamentalmente incostituzionale:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge (...) è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Capito l’antifona? Lo Stato deve rimuovere gli ostacoli allo sviluppo delle persone non crearli!

Chi fa leggi sbagliate da questo punto di vista è tenuto a riconoscerlo e a rimuoverle o modificarle opportunamente e tempestivamente.

Se errare è umano, perseverare nell’errore o farlo passare come la normalità delle cose, è diabolico. Nel caso in cui, come ci auguriamo, tali cambiamenti dovessero accadere, ve ne saremo eternamente grati.

Proposta numero uno: Abolizione dell’espressione “risorse umane”

Cancellare da ogni vocabolario mentale, da ogni titolo di convegno, corso di formazione, articolo, rivista, organigramma aziendale e nelle conversazioni di ogni giorno l’espressione “risorse umane”. Le persone che lavorano sono persone, le risorse sono il tempo, i soldi, le strutture, i mezzi, le tecnologie, il petrolio, l’energia, l’acqua, l’aria.

Proposta numero due: Remunerare la flessibilità ad un valore maggiorato

Dal momento che le aziende traggono benefici notevoli dal poter usufruire di lavoratori interinali, a progetto, free lance o a tempo determinato, è giusto che la quota di incertezza di tali lavoratori venga compensata con retribuzioni maggiorate con delle percentuali da stabilire in funzione della tipologia di lavoro e del valore aggiunto creato dal lavoratore.

In ogni caso, un lavoratore interinale o a progetto o con partita IVA deve percepire una retribuzione superiore a quella di un lavoratore a tempo indeterminato di pari livello o mansione.

In altre parole, la legge deve obbligare le aziende a retribuire questi lavoratori con un compenso doppio o comunque in percentuale più alto rispetto ai colleghi del tempo indeterminato.

Tutto questo perché, lo ribadiamo ancora, la precarietà non risiede nella tipologia dei contratti previsti nel pacchetto Treu o della Legge Biagi ma nella loro scarsa o non adeguata remunerazione, rispetto al costo della vita, ai periodi di inattività, alla tutela previdenziale e della malattia.

La flessibilità “per necessità” deve essere remunerata ad un livello che consenta alle persone di vivere con dignità, senza ricorrere eccessivamente al credito al consumo e/o accollarsi mutui di trenta o quaranta anni.

Nei contratti a progetto, ad esempio, la malattia non è tutelata. Un’amica che lavora a progetto da ben quattro anni, mi raccontava che è rimasta a casa due settimane perché ha contratto la varicella da suo figlio.

Risultato: stipendio dimezzato.

Ecco il vero significato dell’era delle “risorse umane” che stiamo vivendo.

E’ una questione di soldi, non di flessibilità! Senza le “giuste” remunerazioni, senza la necessaria empatia nei confronti di chi lavora in modo flessibile e senza tempi di pagamento adeguati, lo stato, le aziende o chi per loro, creano e legittimano quelle condizioni di sfruttamento che possiamo definire tipiche di uno scenario da “risorse umane”.

Proposta numero tre: Abolizione del curriculum vitae formato europeo

C’era una volta il curriculum vitae personalizzato.

Ricordo nostalgicamente come uno degli aspetti più stimolanti del lavoro di selezione del personale consistesse proprio nello screening dei curricula, tutti diversi e soprattutto “pezzi unici” nell’esprimere la soggettività del candidato.

Potevano essere considerati veramente il primo fondamentale segno distintivo, a livello psicologico, di ogni persona che si candidava per una certa posizione.

L’individualità di ognuno emergeva ogni volta con uno stile diverso, dall’impostato all’informale, dal burocratico al lirico intimistico, dal serioso all’ironico, dal prolisso al supersintetico, dal megalomane al finto modesto.

E poi la lettera di motivazione che introduceva il curriculum: un capolavoro di inventiva e di “captatio benevolentiae”!

Oggi il curriculum personalizzato è praticamente in via d’estinzione. Da quando qualche euroburocrate si è inventato il curriculum vitae formato europeo – “europass” scaricabile dal sito del Ministero del Lavoro – alle persone è richiesto di utilizzarlo sistematicamente o quanto meno nella maggior parte dei casi.

Secondo me, esso rappresenta un’icona dell’era delle risorse umane, un simbolo della tendenza alla spersonalizzazione e all’omologazione.

Ognuno deve incanalare i propri percorsi di vita e di lavoro all’interno di caselle uguali per tutti, schematizzando le informazioni in un formato standard a cui è appiccicato il magico aggettivo “europeo”, come se questo rappresentasse una sorta di “assicurazione di qualità” o di “riconoscimento importante”.

Sempre a proposito dell’uso delle parole, l’aggettivo “europeo” è uno dei preferiti dagli imbonitori che vogliono farci passare le loro “idee” come delle iniziative straordinarie che passeranno alla storia.

Un altro esempio, oltre a quello del curriculum, è quello della “Patente europea del computer”.

Anche le serrature delle nostre porte blindate hanno il cilindro europeo: come dire che, una volta istallato possiamo stare tranquilli perché tanto è europeo!

Proposta numero quattro: Formazione professionale per Deputati e Senatori neoeletti

Al fine di trasformare la “casta” in una classe dirigente che crei valore aggiunto, suggeriamo di sviluppare ed erogare programmi di formazione, all’inizio di ogni legislatura, che coinvolgano i neodeputati ed i neosenatori su temi manageriali vitali per l’ efficace svolgimento della loro funzione di “Gestori della Cosa Pubblica”, come i seguenti:

  • Etica della funzione governativa ed orientamento al Cittadino
  • Comunicazione interpersonale e mediatica – uso del linguaggio, assertività, classe e stile nel
    modo di porsi e di comunicare in Parlamento e davanti ai media
  • Negoziazione
  • La gestione dei conflitti
  • La gestione del tempo e delle attività lavorative
  • Problem Solving

Proposta numero cinque: Istituzione di una Commissione non governativa contro gli sprechi governativi

Tale Commissione ha il compito di abolire privilegi di borbonica memoria, di controllare ed eliminare costi inutili, dal Parlamento fino a quelli degli Enti locali, di controllare e se possibile evitare gli sprechi di denaro pubblico in opere infrastrutturali iniziate e mai finite.

Proposta numero sei: Sfruttamento intensivo del “petrolio italiano”, il turismo

Ogni Comune, ogni Provincia, ogni Regione, ogni Dipartimento ministeriale specifico, deve trasformarsi in un vero e proprio Tour Operator che vende – nel senso letterale del termine – servizi e pacchetti turistici in tutto il mondo.

Ogni singola pietra, affresco, quadro, statua, edificio, palazzo o reperto archeologico deve essere valorizzato al massimo e la loro visita resa accessibile e godibile a tutti.

Il turismo è il vero petrolio italiano, dal momento che abbiamo un patrimonio artistico e paesaggistico unico al mondo ma non siamo il primo paese al mondo per numero di turisti.

Le burocrazie locali e regionali devono compiere una vera e propria mutazione genetica, vendendo ed organizzando attivamente servizi e pacchetti turistici – utilizzando un adeguato mix di canali, da Internet alle fiere di settore, dalle proloco alle agenzie turistiche – per far affluire clienti da tutto il pianeta, in collaborazione con tutte le strutture private dislocate sul territorio.

I dipendenti pubblici degli Assessorati al Turismo devono trasformare i loro ruolo, orientarsi alla vendita e ricevere una adeguata formazione commerciale.

Immaginate un linguaggio rivoluzionario del tipo: “Nel primo semestre dell’anno la provincia di XY ha fatturato 300.000,00 euro”.

L’obiettivo è far diventare l’Italia il paese più visitato, più lodato e più apprezzato al mondo, con la conseguenza di riempire le casse dello Stato.

Le proposte operative

Naturalmente tutto questo comporta il considerare il turista un cliente da soddisfare e non un pollo da spennare, offrendo una qualità del servizio con standard di eccellenza su tutto il territorio nazionale.

Proposta numero sette: Trasformare l’ISTAT in un Centro di Problem Solving Operativo

La missione dell’Istituto Nazionale di Statistica è storicamente quella di produrre statistiche su tutto quello che riguarda la vita collettiva di una nazione: dai censimenti alla misura dell’inflazione, dalla rilevazione dei prezzi al consumo allo studio delle dinamiche sociali.

Tuttavia, mi sto chiedendo ormai da diversi anni a che cosa serve ascoltare le statistiche dell’ISTAT al telegiornale se poi il giorno dopo la benzina aumenta, al mercato ortofrutticolo le persone hanno dei problemi a fare la spesa e la BCE aumenta il tasso di interesse per “mantenere la stabilità dei prezzi”, determinando un aumento del costo del denaro con le conseguenti stangate per chi ha contratto un mutuo a tasso variabile o deve contrarre altri prestiti.

La mera produzione di statistiche converge verso quello che potremmo definire “empirismo aproblematico”, vale a dire un evidenziare fatti, problemi o disagi senza però porre il problema in un’ottica di problem solving operativo.

E’ come dire che:

“Una perfetta descrizione degli effetti della cicuta o della sua composizione chimica non spiega affatto il vero motivo della morte di Socrate”.

A volte provo la netta sensazione che qualcuno ci ripeta in continuazione la composizione chimica della cicuta senza però dirci che Socrate è stato messo a morte dal tribunale ateniese perché era un personaggio che ne destabilizzava pericolosamente il potere o quantomeno così veniva percepito.

L’ “accusa ufficiale” era che corrompesse i giovani ma in realtà era il primo “filosofo-coach” della storia a voler formare la coscienza critica nel suo prossimo e sappiamo come persone in grado di pensare con la propria testa non siano mai troppo gradite ai sistemi di potere.

Ecco, mi piacerebbe che in questo senso l’ISTAT continuasse a svolgere il suo lavoro – nel modo in cui lo ha sempre fatto, ossia bene – ma che aggiungesse alla sua mission istituzionale un diverso valore ed una nuova consapevolezza orientati al problem solving operativo, magari facendo gioco di squadra con il Governo, gli Enti locali, le Associazioni.

Il dato statistico, se non si dimostra propedeutico o funzionale a trovare poi effettive soluzioni, è un dato sterile o quanto meno ridondante.

In sostanza il messaggio è questo: ormai i problemi li conosciamo, aiutateci a trovare le soluzioni.

Proposta numero otto: cambiare mentalità nei confronti della formazione

Nel 2007 un responsabile aziendale mi disse: “Non facciamo formazione, non facciamo addestramento, facciamo solo istruzioni per l’uso”.

Il motivo addotto, un classico alibi delle aziende perdenti, era che “non c’erano soldi per la formazione”, sottintendendo che l’azienda non voleva spendere i suoi soldi ma aspettava un’occasione di finanziamento pubblico per fare formazione.

Dall’ istituzione del Fondo Sociale Europeo nei primi anni Novanta del secolo scorso in poi, i fondi a disposizione delle aziende per la formazione sono cresciuti a dismisura, con il vantaggio di aumentare la sensibilità nei confronti della formazione ma contemporaneamente con lo svantaggio di creare un mostruoso parassitismo nei confronti della formazione stessa.

In altre parole, oggi siamo arrivati al punto che molte aziende “ragionano” in questo modo: “Abbiamo sete – cioè avvertiamo un fabbisogno formativo – ma aspettiamo per bere di incontrare, strada facendo, una fontanella pubblica”.

E se poi la fontanella non si incontra, la cosa non è poi così grave, secondo questo tipo di mentalità.

Tuttavia, questo approccio alla formazione è tipico delle aziende perdenti, vale a dire di quelle che rischiano di presentarsi sul mercato “disidratate”, ossia assolutamente non competitive.

Tra l’altro, la formazione finanziata è spesso gestita con criteri da “corsifici” che penalizzano la qualità dei progetti, con una valutazione del ritorno degli interventi che, nella migliore delle ipotesi, si ferma alle schede di gradimento di fine corso57.
Le aziende vincenti, invece, dimostrano una mentalità ed un approccio alla formazione totalmente diverso. In primo luogo, partono da questa domanda: “Perché aspettare di incontrare la fontanella pubblica per dissetarci?”; in secondo luogo, proseguono chiedendosi operativamente:

“Se anche trovassimo la fontanella pubblica, fa al caso nostro? Oppure abbiamo bisogno di un sistema di approvvigionamento idrico completamente diverso?”.

Un’azienda vincente è ben consapevole delle possibili opzioni in gioco e delle conseguenze delle sue scelte strategiche.

Le alternative da valutare sono:

  1. Moriamo di sete
  2. Cerchiamo altre fonti
  3. Scaviamo un pozzo
  4. Raccogliamo acqua piovana
  5. Ricaviamo acqua dai cactus
  6. Destalinizziamo l’acqua del mare
  7. Utilizziamo per il momento le nostre riserve d’acqua

La valutazione delle alternative è un tipico processo di decision making che va calato nello specifico contesto dell’azienda, del mercato di riferimento e del momento storico che l’organizzazione sta vivendo.

Sono tutte valide, anche la prima, a condizione che “morire di sete” significhi decidere di ritirarsi da un business per lanciarne uno nuovo.

In ogni caso, ancora una volta, la differenza tra un’azienda vincente ed una perdente è che la prima fa scendere in campo i suoi dipendenti soltanto dopo averli opportunamente allenati, la seconda si improvvisa come l’armata Brancaleone alla ricerca di un improbabile “castello pubblico” nel quale rifugiarsi.

Proposta numero nove: sgombrare la mente dai pregiudizi e dagli stereotipi riguardanti le persone

“Si può perdere una risorsa solo perché indossa la gonna?”, si domanda il collega Vittorio Tripeni nelle pagine de “L’Informatore Inaz” 58 .

La discriminazione delle donne nel mondo del lavoro è un tema che sta tornando alla ribalta delle cronache e della letteratura manageriali degli ultimi tempi.

Anche la formazione si sta occupando molto del tema della diversità dei generi, del post maternità per la donna e della inclusion leadership.

In effetti, il mondo è ancora pieno di pregiudizi e di stereotipi nei confronti delle persone, soprattutto delle donne.

Nei colloqui di selezione c’è ancora chi fa domande del tipo: “Pensa di avere dei figli?”, “Lei è sposata?”; oppure c’è ancora chi si permette, al termine di un master di raccogliere, per lo stage in un’azienda, soltanto i curricula dei “maschietti” perché “così vuole il cliente”.

Per non parlare poi di molestie sessuali e dei goffi approcci seduttivi di capi frustrati ed inetti. Comportamenti semplicemente assurdi, amorali, medievali.

Correva l’anno 1922 quando il giornalista statunitense Walter Lippmann definiva lo stereotipo come un modello iper-semplificato che supporta la ricerca dei significati per la classificazione e la lettura della realtà.

Quindi, come nel processo di stampa si riproducono gli stessi caratteri, a livello sociale gli stereotipi riproducono le stesse immagini e percezioni relativamente a gruppi o tipologie di persone, facendone però scomparire qualunque sfumature e differenza individuale.

In sintesi, se da un lato, in una prima fase conoscitiva, può essere utile categorizzare e “stereotipare” certi aspetti della realtà, dall’altro può essere molto rischioso fermarsi allo stereotipo quando si tratta di approcciare il mondo delle persone.

Le cosiddette visioni stereotipate, come ad esempio “il milanese che lavora”, “il romano scansafatiche”, “il napoletano imbroglione”, “l’uomo è più adatto di una donna per certi mestieri”, “è la donna che si deve occupare della casa”, non solo ipersemplificano i modelli della realtà ma la distorcono totalmente, producendo discriminazione, conflittualità, ingiustizie.

Anche associare il trovare lavoro alla necessità di avere una raccomandazione è uno stereotipo psicologico che mina l’autostima ed inibisce l’intelligenza di chi lo assume come convinzione di riferimento.

Pregiudizi e stereotipi sono molto diffusi anche per quanto riguarda l’età delle persone, lo abbiamo approfondito nel capitolo dedicato all’Associazione Over 40

Insomma, l’augurio è di vedere un giorno in Italia un Presidente del Consiglio o della Repubblica donna, e di eliminare definitivamente tutti i pregiudizi relativi ai generi, alle età, alle etnie di provenienza.

Come sostiene Vittorio Tripeni:

“Le qualità ritenute tipiche dell’elemento femminile apportano una componente significativa alle performance delle organizzazioni di qualsiasi tipo, esse molto spesso rimangono trascurate o addirittura misconosciute; in effetti, le qualità femminili nobilitano e accrescono il potere delle competenze imprenditoriali” 59.

Proposta numero dieci: tutti uniti in una “Affirmative Action”

Ognuno di noi, i nostri gruppi di riferimento, i sistemi sociali nei quali siamo inseriti e lo Stato in cui viviamo, abbiamo bisogno di positività e di incoraggiamento, di sviluppare visioni ottimistiche della realtà e del suo futuro, di realizzare una cultura meritocratica e di una vera uguaglianza sociale che non è quella dei contratti collettivi e dell’istruzione uguale per tutti.

Abbiamo bisogno di implementare una azione affermativa, costruttiva e di farlo tutti insieme, uniti da un senso del collettivo che non deve emergere soltanto in occasione delle partite di calcio della nazionale.

Tale “Affermative Action” va portata avanti senza parolacce, offese o ingiurie, senza approcci secessionisti o razziali ma con l’unico intento di diventare uno dei paese al mondo dove è bello nascere, vivere e prosperare, insieme agli altri e non in senso egoistico.

Cittadini stressati, pieni di affanni e di debiti, lavoratori con retribuzioni da fame, raccomandati senza merito imboscati in posti di lavoro o imbullonati su poltrone più o meno importanti, rappresentano le condizioni di sicuro regresso di un Paese ed una condotta sociale amorale.

Voglio concludere con una citazione di George Bernard Shaw che mi ha sempre colpito e che sempre mi ritorna in mente quando leggo un giornale, guardo la televisione, osservo la realtà di ogni giorno ed ascolto le persone che mi raccontano la loro vita:

“E’ solo la nostra stoltezza che ci impedisce di trasformare il mondo in un piccolo paradiso”

57 Per maggiori approfondimenti su questo tema, cfr. il mio saggio “La formazione come palestra della professionalità. Guida pratica all’utilizzo delle attività formative per le persone e le organizzazioni”, Franco Angeli, Milano, 2007

58 L’Informatore Inaz n. 9 del 15 maggio 2006

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