Assertivita' e Scrittura: relazioni e reputation

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Assertivita' e Scrittura: come lo scritto determina relazioni e reputation

A volte, nelle docenze in cui mi trovo ad insegnare comunicazione interpersonale, chiedo a un partecipante di alzarsi e gli consegno un biglietto (che solo lui può leggere) in cui scrivo:

“Hai due minuti di tempo per non comunicare.

Fai tutto ciò che vuoi ma non devi comunicare”.

Nel frattempo, chiedo agli altri di osservare il loro collega che, per riuscire a fare ciò che gli è stato chiesto, solitamente rimane in piedi, in silenzio, con lo sguardo basso.

Chi lo guarda, si appunta una serie di considerazioni che poi passati i due minuti riferisce: “era teso”, “nervoso”, “imbarazzato”, “spazientito”, “impaziente”.

In meno di un minuto fioccano più di dieci aggettivi: l’obiettivo (che quindi non è stato raggiunto) viene a questo punto svelato anche agli altri, chiedendo loro cosa avrebbero fatto nei panni del collega.

“Mi sarei girato di spalle”, “Sarei uscito dall’aula”, “Avrei chiuso gli occhi”, sono le tre soluzioni che di solito vengono proposte e prontamente smentite: la prima avrebbe comunicato poco rispetto (vedi gli attori a teatro), la seconda avrebbe suscitato curiosità, la terza avrebbe suggerito volontà di concentrazione o magari sonno.

Insomma, l’obiettivo non era sfidante ma irrealizzabile.

“E’ impossibile non comunicare”.

E’ il cosiddetto “primo assioma della comunicazione” secondo la teoria di Paul Watzlawick descritta nell’opera Pragmatica della comunicazione umana : anche un silenzio o un’assenza comunicano, nel senso che ci trasmettono un messaggio su una persona e una situazione.

Tutti comunichiamo, sempre, comunque ed in ogni momento.

Una teoria americana, quella dei six seconds, ritiene che bastino sei secondi per farsi un’idea della persona che si ha davanti.

Probabilmente è un po’ estrema ma sicuramente contiene una base di verità.

Ci basta pochissimo per farci una prima idea o prima impressione di una persona.

Così anche agli altri per formarsi un’immagine di noi.

Un’università francese, qualche anno fa, condusse un esperimento interessante: chiese ad un uomo di simulare il furto di un cd in un negozio affollato.

L’uomo, tatuaggi in vista, orecchino, capelli con la cresta, si vestì con t-shirt chiassosa e jeans strappati.

Prese il cd e uscì dal negozio.

Oltre il 50 % dei clienti, intervistati, dichiararono di essersi accorti del furto.

Passa un po’ di tempo, stessa identica scena: l’uomo ruba il cd e fugge dal negozio.

Stavolta però, è vestito in giacca e cravatta, i tatuaggi sono coperti, l’orecchino è sparito, i capelli sono corti e ordinati.

Meno del 25 % dei clienti, intervistati, ammette di essersi reso conto del furto.

Meno della metà rispetto al precedente.

Cosa è cambiato?

Solo il suo abbigliamento, la sua immagine.

L’abito non fa il monaco?

Tutt’altro.

Il nostro abbigliamento, al quale leghiamo la nostra immagine ed anche una parte della nostra identità, ci qualifica o squalifica a tutti gli effetti.

Diviene un tutt’uno con noi. Non a caso, abito e abitudine hanno la stessa radice, quella del latino habitus.

Diciamo infatti che l’abitudine è un abito mentale, uno schema che veste i nostri pensieri. Vestirsi in modo informale quando il contesto richiede l’opposto è un vero e proprio errore relazionale.

La stessa regola vale per la comunicazione: non c’è da chiedersi se qualcosa si dice o non si dice, ma se si addice.

Lo psicologo George W. Crane afferma:

“Il linguaggio è l’abbigliamento nel quale i tuoi pensieri sfilano in pubblico.

Non vestirli mai con abiti volgari o scadenti”.

Il principio vale anche e soprattutto per la scrittura: “verba volant, scripta manent”, come ci ricorda l’antico proverbio latino.

Quindi ciò che digitiamo ci descrive: rimanda al nostro stile, al nostro pensiero, al nostro approccio con gli altri.

Troppo spesso non ci preoccupiamo di questo riflesso, degli effetti o delle conseguenze che la nostra scrittura ha sulla nostra reputazione e, dunque, sul nostro modo di instaurare (o mantenere) relazioni.

Porterò di seguito alcuni esempi, elencando una serie di frequenti “comportamenti della scrittura” e descrivendone gli effetti.

L’obiettivo è rilevare e comprendere ciò che trasmettiamo quando li attuiamo.

Come canale comunicativo di riferimento, prendo il più utilizzato e al tempo stesso quello che oggi ci fa sudare di più: la mail.

Scrivere tanto (più di 20 righe) annoiare

Utilizzare molte più parole di quante necessarie è in cima alla lista degli errori più comuni.

Chi lo commette, passa come incapace di sintetizzare e di focalizzare i concetti più importanti.

In molti casi, all’arrivo di mail molto lunghe, ho sentito dire: “Ma quanto scrive Mario?

Si vede che ha proprio tempo da perdere!”.

In realtà, come Pascal ci insegna (“scusami per la lunghezza di questa lettera, ma non ho tempo per scriverne una più breve”) è la brevità a richiederci impegno, ma il messaggio che ci arriva è spesso l’opposto.

Scrivere troppo si associa all’incapacità di sintesi e alla logorrea, quindi ad una persona incompetente lato scrittura.

Scrivere in modo fitto senza lasciare spazio tra righe non lasciare spazio

Se vi è mai capitato di ricevere una mail lunga e talmente fitta che nello spazio della pagina rimanessero solo i neri della scrittura, probabilmente la prima reazione che avete avuto è stata quella di richiuderla immediatamente.

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Il testo scritto, nella sua organizzazione della pagina, ha bisogno di pause, da esprimersi con spazi bianchi.

La struttura del testo va organizzata nello spazio per nuclei tematici e utilizzando il più possibile tutti gli espedienti grafici che possano facilitare la comprensione (ad esempio gli elenchi puntati).

Un testo fitto ci rimanda a logorrea o a tentativi un po’ aggressivi di “imporsi” attraverso indigesti blocchi di scrittura.

Essere troppo sbrigativi mancare di attenzione o addirittura di educazione

E’ possibile scrivere troppo poco?

Quasi mai: l’errore più comune è infatti quello di scrivere troppo.

Tuttavia, anche se rari, ci sono casi in cui questo succede: in particolare, quando replichiamo in modo tranchant.

E’ buona norma - anzi, direi un obbligo assertivo - sia quando si scrive la prima mail di una conversazione sia quando si risponde, inserire una formula di saluto iniziale (“Cara Michela”, “Gentile Dott.ssa Rossi”) e finale (“Un saluto”, “Cordialmente”) e ricordarsi di inserire dopo quest’ultimo il proprio nome o nome e cognome.

Possiamo evitare questo solo quando la conversazione mail con lo stesso interlocutore e lo stesso oggetto inizia ad avere più scambi all’interno della stessa giornata.

In questo caso, dopo la prima mail di avvio conversazione, possiamo evitare almeno la formula di saluto iniziale e la firma.

Scrivere troppo poco rimanda alla volontà di dedicare poco tempo a quell’interlocutore o a quell’oggetto della conversazione o in alcuni casi al ritenersi superiori.

Scrivere in maiuscolo urlare

Come vi sentite quando qualcuno vi urla contro?

Ricordatevelo prima di scrivere in MAIUSCOLO all’interno di una mail o di una chat perchè corrisponde ad urlare.

Se intendete dare risalto a un concetto, ponetelo strategicamente in posizione di attenzione (magari all’inizio) oppure aiutatevi con il grassetto - anche qui a piccole dosi – ma sicuramente evitate il maiuscolo (e anche il sottolineato: si andrebbe con il mouse sulla parola in cerca di un collegamento ipertestuale).

Utilizzare emoticon in circostanze formali essere o andare fuori contesto

Passare nella scrittura quotidiana dagli sms a WhatsApp ha sancito l’affermazione delle emoticon.

Se fino a qualche anno fa scrivere in chat senza smile era la normalità oggi si rischia di essere tacciati di freddezza.

Attenzione però alle mail professionali, dove faccette e simili sono ancora fuori luogo.

Se volete dare calore a una frase, servitevi di un bel punto esclamativo alla fine (uno e non tre: anche qui senza esagerare!).

Firmare con le iniziali o con il titolo prima del nome darsi un tono

Il modo in cui firmiamo è quello in cui presentiamo noi stessi agli altri.

E’ un po’ come la stretta di mano in presenza.

Se una persona che state conoscendo vi si avvicina e, al momento di dirvi il suo nome, lo fa precedere dai titoli “Prof. Dott… Rossi”, cosa pensereste?

Probabilmente che ci tiene a darsi un tono, anche se quei titoli se li è sudati e sono legittimi.

Evitiamo dunque di inserirli nella firma, così come evitiamo di concludere con le nostre iniziali: il messaggio che passa è che non abbiamo tempo da dedicare al nostro destinatario per scrivere per intero il nostro nome e cognome.

Commettere errori di ortografia prestare poca attenzione o essere ignoranti

C’è un gruppo su Facebook dal nome “Scartare corteggiatori e potenziali amanti per gli errori grammaticali”.

Non sono l’unico iscritto ma siamo in più di centododici mila. Le comunicazioni sono e saranno sempre più brevi e la forma sempre meno rilevante ma il rispetto dell’ortografia è e resterà sempre un dovere liguistico: commettere errori grammaticali denota, come minimo, una mancanza di attenzione nel rileggere e quindi poca cura del destinatario o degli stessi contenuti espressi.

Per questi motivi, evoca ignoranza e sciatteria mentale.

Sbagliare il nome del destinatario mancare di considerazione verso il destinatario

Sarà che il mio nome e cognome non sono i più comuni e neanche i più brevi ma negli anni mi è capitato di leggere comunicazioni in cui venivo chiamato in ogni modo: il cognome diventava Belfiore, Bellofiore o Bellifiori.

Il nome Eduardo o, in un caso, addirittura Edmondo.

Se è doveroso rileggere tutto il testo per evitare sviste ed errori, è doppiamente importante fare attenzione a scrivere correttamente nome e cognome del nostro interlocutore.

Se rivolgendovi a Mario, lo chiamate Marco, siete certi di aver fatto una figuraccia ma se ve ne accorgete in tempo, potete sempre rimediare.

Accade esattamente lo stesso se l’errore sul nome avviene nello scritto.

Anzi qui è ancora peggio, perché si ha tutto il tempo di verificare prima di scrivere.

E il nome sbagliato rimane sullo scritto senza la possibilità di essere corretto! (servirà una seconda mail)

Utilizzare molte sigle e acronimi esprimersi burocraticamente

Una delle prime mail professionali che ricevetti si concludeva con “rispondimi ASAP”, per chiedere una risposta “as soon as possible”, cioè il prima possibile. Il mio interlocutore avrebbe tranquillamente potuto scrivere “rispondimi appena puoi” o “rispondimi al più presto” o in altri modi ancora (sempre in italiano).

Sigle e acronimi vanno inseriti solo quando non se ne può fare a meno oppure evitati del tutto.

Per sigle intendiamo parole contratte con meno lettere (ad esempio “bdg” per budget, “mktg” per marketing”, “gg.” per giorni).

Per acronimi, invece, parole formate con le iniziali di altre parole che sostituiscono frasi, proprio come ASAP (o SAL che sta per “stato avanzamento lavori” o ROI che significa “return on investement”).

Sigle e acronimi sono l’esempio della necessità di brevità nella scrittura ma attenzione: sono anche il primo elemento che mina la chiarezza di un testo.

Troppo spesso le si inserisce senza chiedersi se il nostro interlocutore le comprenda.

Nella maggior parte dei casi, fanno riferimento ad un gergo tecnico o aziendale e comunque specifico per gli “addetti ai lavori”.

Le abbreviazioni trionfano soprattutto nel linguaggio burocratico (PV per “prossimo venturo”, US per “ultimo scorso”, CM per “corrente mese”, ) e dunque, nell’immaginario, ci rimandano inevitabilmente al burocratese.

Ripetere i concetti esprimere passività e incapacità di andare al punto con incisività

La brevità è necessaria e, per realizzarla, dobbiamo evitare la ripetizione.

Mi capita spesso di imbattermi in mail di venti righe dove lo stesso concetto viene ripetuto in diciotto righe.

Questo può accadere perché lo scrivente ha avuto la sensazione di essere stato poco incisivo la prima volta in cui ha espresso il concetto e pensa che ripeterlo possa aiutarlo nell’affermarlo.

Non è affatto così.

Questo è caso in cui, più degli altri, conta la qualità e non la quantità.

L’obiettivo assertivo è dirlo e specificarlo una volta soltanto ed in modo efficace e incisivo.

La ripetizione ci toglie autorevolezza e va in direzione opposta rispetto all’assertività: inneschiamo la percezione che per essere ascoltati siamo costretti a dire una cosa più volte e sempre nello stesso ridondante modo.

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