Caro amico / amore / collega / capo ti scrivo

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Caro amico/amore/collega/capo ti scrivo: digitare sempre e ovunque

“Nulla dies sine linea” riportava Plinio il Vecchio nella sua Historia naturalis, riferendosi al pittore Apelle che non passava giorno senza dipingere.

Anche per noi vale lo stesso detto, ma la linea è costituita per noi da parole ed emoticon che digitiamo continuamente.

Per quanto riguarda le relazioni con gli altri, la scrittura è stata per molti secoli la forma di comunicazione sostitutiva di quella orale, nel momento in cui tra due interlocutori si interponeva la distanza fisica.

Nascevano così le lettere d’amore, d’amicizia e gli accordi commerciali.

Fino a meno di un secolo fa, in pochi sapevano scrivere e meno ancora scrivevano regolarmente.

Per farlo, si aveva bisogno, come minimo, di una penna, un foglio, una busta, un tavolo, una sedia.

Oggi, l’assunto di Plinio è un dato di fatto.

Descrive una realtà.

Quella in cui viviamo, in cui tutti scriviamo a tutti.

Scriviamo più volte al giorno.

Non c’è bisogno di essere particolarmente colti, anzi.

Non c’è bisogno, quasi più, della penna, del foglio, della busta, del tavolo, della sedia.

In molti casi, neanche di quel po’ di silenzio in cui si svolgeva l’atto dello scrivere e della concentrazione che lo precedeva e lo definiva.

Scriviamo mentre camminiamo, guidiamo, cuciniamo, guardiamo la tv.

Anche mentre attraversiamo la strada, a costo di rimetterci la pelle, fino al punto che in molte grandi città è stato vietato per la quantità di incidenti che questo provocava.

Scriviamo in ufficio, in bagno, sul tram, in metropolitana.

Questo ci rende “scrittori tutti e ovunque”, perché scrivere sta diventando frequente e automatico quanto – e forse anche più – di camminare. Inviamo scritture ogni giorno e quotidianamente ne riceviamo, qualsiasi sia il nostro lavoro.

Mail, sms, messaggi in chat, post sui social network.

La scrittura che produciamo aumenta sempre di più e di tempo per leggere ne abbiamo sempre meno.

Questo fatto riguarda sia l’ambito personale sia quello professionale: più conversazioni e gruppi WhatsApp, più post su Facebook, più cinguettii su Twitter, più commenti nei blog.

Più mail: per informare, per confermare, per vendere, per farsi conoscere, per prendere appuntamenti o semplicemente per salutare e ringraziare.

Anche a lavoro, scriviamo ogni giorno. Di qualsiasi cosa ci occupiamo (ad eccezione dell’operaio specializzato) scriviamo. Sempre più persone devono confrontarsi ogni giorno con la produzione di testi.

Centinaia di mail giornaliere, ma anche report, verbali, sito web.

Quindi scriviamo di più e a più destinatari.

E leggiamo sempre più superficialmente e in minor tempo.

E’ peggio di prima? E’ meglio di prima?

Chi lo sa, ma sicuramente è un dato di fatto.

Questo ci porta a dover essere più incisivi, più bravi a farci leggere, a introdurre elementi di novità in sempre meno parole.

A casa o a lavoro, con l’amico o con il capo, oggi la nostra scrittura è costretta sempre più a rispondere all’esigenza di funzionalità.

Il risparmio di tempo per il nostro interlocutore è divenuto necessità, oltre ad essere un atto di cortesia.

Questo si traduce in tre caratteristiche che la nostra scrittura, sia quella personale sia quella in azienda, deve avere per poter essere efficace ed assertiva:

  1. Brevità

Si può facilmente immaginare come il risparmio di tempo che dobbiamo al nostro interlocutore si traduca nella necessità, da parte nostra, di essere brevi.

Che si tratti di una mail o di un messaggio su WhatsApp, la sensazione che proviamo quando vediamo che si tratta di un “papiro” è la stessa: fastidio.

Quasi sempre facciamo la stessa cosa: chiudiamo pensando “la leggo dopo” oppure se leggiamo subito lo facciamo spostando l’occhio velocemente, “scansionando” mentalmente soltanto le parole chiave.

Sarebbe come trovarsi di fronte ad un interlocutore che ci rimbambisce di parole e sappiamo che dalla prima che pronuncia passerà almeno mezzora prima che arrivi, in modo ininterrotto, all’ultima.

E’ per questo che spesso, chi sta per iniziare un discorso, promette “sarò breve”.

E nell’uditorio scatta subito una sensazione di sollievo. In occasione di una conferenza caratterizzata da interventi lunghi e sonnolenti, ricordo che uno fu invece incredibilmente breve: la persona disponeva di quindici minuti per il suo discorso e finì in poco più di cinque.

Gli applausi furono forti e il suo discorso fu molto apprezzato per la sua brevità.

Già dal filosofo Talete, vissuto nel VI secolo, la brevità fu ritenuta un grande pregio: “Molte parole non sono mai indizio di molta sapienza”.

Pascal, a metà del Seicento, iniziò così uno scritto a un amico: “Scusami per la lunghezza di questa lettera, ma non ho tempo per scriverne una più breve”.

A noi può sembrare un controsenso ma è proprio così.

La brevità richiede cura: non significa taglio quantitativo indiscriminato ma capacità di portare il messaggio nel numero di parole che occorre senza usarne in eccesso.

Si chiama capacità di sintesi.

A volte ho sentito dire “sei troppo sintetico”. Impossibile.

Non esiste la troppa sintesi. La sintesi ha sempre un’accezione positiva.

Quella che è ritenuta troppa sintesi, in una accezione negativa, si chiama “incompletezza”, “Approssimazione”, “Stringatezza”.

In guerra il tempo è pochissimo in ogni scambio e in ogni mossa.

Bisogna prendere decisioni velocemente e attuarle all’istante.

Il primo che impose la brevità nella scrittura e la correlò al risparmio di tempo fu Winston Churchill.

Il Primo Ministro inglese riceveva dai suoi generali, che presidiavano diverse zone del fronte, resoconti lunghissimi dove c’era dentro di tutto: da quello che avevano mangiato, alle condizioni atmosferiche, da elementi utili per Churchill a digressioni senza alcuna importanza.

Questa impostazione, con la lettura di cose inutili, gli faceva perdere il tempo che gli sarebbe servito per elaborare le informazioni raccolte e rivedere la strategia o la tattica.

Finché, ad un anno dall’inizio della guerra, invia a tutti i suoi generali questo ordine:

“Per adempiere al nostro lavoro, tutti dobbiamo leggere una grande quantità di documenti.

Quasi tutti sono di gran lunga troppo prolissi. Questo determina una perdita di tempo, quando invece le nostre energie dovrebbero essere dedicate ai punti essenziali.

Chiedo ai miei collaboratori di fare in modo che i nostri rapporti siano più brevi”

Ma i suoi generali non erano (tutti) dei bravi comunicatori: pochi erano abituati a scrivere, figuriamoci a sintetizzare.

Allora Churchill gli dà alcune indicazioni pratiche per conseguire la brevità:

  1. Evidenziare i punti principali in brevi paragrafi
  2. Mettere in appendice l’analisi di elementi complessi o statistiche
  3. Puntare all’efficacia con semplici promemoria da ampliare poi verbalmente
  4. Smettere l’uso di frasi quali: “E’ altresì importante tenere presenti le seguenti considerazioni” e non trattenersi dall’usare espressioni semplici anche se comuni

Churchill, con queste parole, diede una grande lezione di comunicazione ai suoi ufficiali.

E vista l’attualità di quanto esprimeva, la sua lezione vale anche per noi.

Traduciamo in suggerimenti pratici per noi i suoi consigli, nel seguente schema:

Caro amico/amore/collega/capo ti scrivo: digitare sempre e ovunque

Dopo Churchill, la sua lezione fu ripresa ovunque. Si dice che Ronald Reagan si rifiutasse di leggere messaggi dei suoi collaboratori più lunghi di una pagina e che Eisenhower facesse notare ai suoi: “E’ più difficile scrivere un rapporto di 20 righe che uno di 20 pagine”.

Per essere sintetici, la brevità va applicata a tutti i livelli:

Testo

Poniamoci subito un limite nella lunghezza complessiva del testo.

I giornalisti, la cui professione coincide da sempre con la scrittura, hanno a disposizione sistematicamente un numero massimo di battute (caratteri testuali e spazi).

Per una mail, ad esempio, il nostro limite massimo potrebbe essere quello di quindici righe.

Se proprio non riusciamo a rimanere in questo spazio, nonostante ogni tentativo di sintesi, dobbiamo chiederci se non sia il caso di creare un allegato.

In ogni caso, dobbiamo prefissare un limite: non è possibile scrivere mail di cinquanta righe, report di trenta pagine, sms di trecento caratteri, messaggi in chat di cinquecento caratteri.

Siamo di fronte ad un aut aut: o riusciamo a ridurre o vuol dire che stiamo utilizzando il canale comunicativo sbagliato.

Periodi del testo

Non possiamo essere brevi con frasi lunghe: spezziamole il più possibile ed evitiamo subordinate.

Ad esempio:

“Al termine di questo periodo in cui è stato un piacere lavorare insieme, ringrazio tutti voi per aver raccolto una sfida di così grande valore e di avermi sempre dimostrato la massima disponibilità a collaborare”.

può diventare:

“Vi ringrazio per aver raccolto una sfida di così grande valore e per avermi sempre dimostrato la massima disponibilità a collaborare. E’ stato un piacere lavorare con voi in questo progetto”.
L’obiettivo diventa quello di rimanere entro le venti parole tra un punto e l’altro.

Parole del periodo

Il numero di lettere che utilizziamo è il nostro punto di partenza obbligatorio.

L’uso di parole lunghe è il primo fattore che ci allontana dalla brevità e abbassa il livello di efficacia dei nostri testi e dei nostri discorsi.

Uno dei discorsi più famosi di tutti i tempi, quello di Abraham Lincoln a Gettysburg dopo la Guerra Civile, durato solo tre minuti, era formato da duecentosettantacinque parole brevissime: la più lunga era di quattro lettere.

Caro amico/amore/collega/capo ti scrivo: digitare sempre e ovunque

Durò tre minuti e ricevette sei minuti di applausi.

  1. Chiarezza

La brevità è il presupposto della chiarezza, ma non ne è la garanzia.

Qualche anno fa, un articolo di giornale riportava questo titolo: “Insidia sua figlia, gli dà fuoco”.

Chi insidia chi?

Chi dà fuoco a chi?

In questa frase la brevità non manca ma la chiarezza sì! Nell’ottica del rispetto per il nostro interlocutore e per l’impegno a non fargli perdere tempo nel leggerci, la chiarezza è una priorità assoluta.

Un testo poco comprensibile innervosisce chi lo legge e gli richiede maggiore impegno e sforzo mentale.

Come rendere più chiari i nostri testi?

Scrivere per punti
Servirsi di parole semplici e comuni (attenzione al gergo tecnico: è il caso di alcuni medici che quando parlano non si capisce nulla)
Prediligere la forma attiva
Usare espressioni dirette e concrete: evitare perifrasi (giri di parole) e litoti (l’affermazione di un concetto attraverso la negazione del suo contrario: ad es. “non senza ragione”)
Immaginate (o forse sapete) il danno che l’incomprensibilità della scrittura può fare sul lavoro.

Per questo, negli Stati Uniti, dal mondo bancario, è nato il cosiddetto Linguaggio Semplificato, che afferma i seguenti principi:

  • Non si è mai troppo chiari
  • Usare il linguaggio tecnico solo se può essere compreso appieno (o almeno indicare il significato dei tecnicismi su cui si ha il dubbio che possano essere capiti)

Proprio per la sua importanza, anche grandi scrittori hanno dato consigli su come raggiungere la chiarezza. Il giornalista e scrittore Clive Staples Lewis, autore delle Cronache di Narnia, nella Lettera a Joan scritta il 2 giugno 1956, scriveva così:

  • Cerca di usare sempre il linguaggio in maniera tale da rendere chiaro cosa vuoi significare: devi essere sicuro che la tua espressione non lasci intendere nulla di diverso.
  • Preferisci sempre la parola chiara e diretta a quella più vaga e ampia
  • Non usare termini astratti quando quelli concreti funzionano. Se vuoi dire “più persone sono morte” non dire “la mortalità è aumentata”
  • Non usare parole troppo grandi per il soggetto. Non dire “infinitamente” quando intendi “molto”, altrimenti non avrai più parole per quando vorrai parlare di una cosa veramente infinita

Ernest Hemingway consigliava:

  • Usa frasi brevi
  • Usa attacchi brevi
  • Sii positivo
  • Evita il passivo prediligendo la forma attiva
  • Elimina ogni parola superflua

Anche George Orwell disse la sua:

  • Non usare metafore o figure retoriche
  • Non usare una parola lunga se ce n’è una più corta
  • Se puoi tagliare una parola fallo
  • Non usare la forma passiva se puoi usare quella attiva
  • Non usare una parola straniera, un termine scientifico o un’espressione gergale quando c’è un equivalente nella lingua quotidiana.

Perché la nostra tendenza non è quella di scrivere in modo chiaro?

Per lo stesso motivo che accomuna tutti gli errori di comunicazione: partire da noi stessi e non dal nostro interlocutore.

Ma c’è un motivo per cui noi italiani siamo particolarmente portati a “complicare” la scrittura e si chiama “burocratese”.

E’ la lingua più complicata per antonomasia e quella per definizione più lontana dall’assertività.

Ne parlava già nel 1965 il grande Italo Calvino, definendola “antilingua”, in un suo articolo sul quotidiano “Il Giorno”:

“Il brigadiere è davanti alla macchina da scrivere.

L'interrogato, seduto davanti a lui, risponde alle domande un po' balbettando, ma attento a dire tutto quel che ha da dire nel modo più preciso e senza una parola di troppo: "Stamattina presto andavo in cantina ad accendere la stufa e ho trovato tutti quei fiaschi di vino dietro la cassa del carbone.

Ne ho preso uno per bermelo a cena.

Non ne sapevo niente che la bottiglieria di sopra era stata scassinata".

Impassibile, il brigadiere batte veloce sui tasti la sua fedele trascrizione: "Il sottoscritto essendosi recato nelle prime ore antimeridiane nei locali dello scantinato per eseguire l'avviamento dell'impianto termico, dichiara d'essere casualmente incorso nel rinvenimento di un quantitativo di prodotti vinicoli, situati in posizione retrostante al recipiente adibito al contenimento del combustibile, e di aver effettuato l'asportazione di uno dei detti articoli nell'intento di consumarlo durante il pasto pomeridiano, non essendo a conoscenza dell'avvenuta effrazione dell'esercizio soprastante" […]

"Ogni giorno, soprattutto da cent'anni a questa parte, per un processo ormai automatico, centinaia di migliaia di nostri concittadini traducono mentalmente con la velocità di macchine elettroniche la lingua italiana in un'antilingua inesistente.

Avvocati e funzionari, gabinetti ministeriali e consigli d'amministrazione, redazioni di giornali e di telegiornali scrivono parlano pensano nell'antilingua.

Caratteristica principale dell'antilingua è quello che definirei il "terrore semantico", cioè la fuga di fronte a ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato […].

Nell'antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente […] 

Chi parla l'antilingua ha sempre paura di mostrare familiarità e interesse per le cose di cui parla, crede di dover sottintendere: "io parlo di queste cose per caso, ma la mia funzione è ben più in alto delle cose che dico e che faccio, la mia funzione è più in alto di tutto, anche di me stesso".

La motivazione psicologica dell'antilingua è la mancanza d'un vero rapporto con la vita, ossia in fondo l'odio per se stessi.

La lingua invece vive solo d'un rapporto con la vita che diventa comunicazione, d'una pienezza esistenziale che diventa espressione.

Perciò dove trionfa l'antilingua - l'italiano di chi non sa dire "ho fatto" ma deve dire "ho effettuato" - la lingua viene uccisa”.

L’antilingua si chiama così proprio perché è l’esatto opposto della lingua viva, quella utilizzata tutti i giorni.

L’antilingua, semplicemente, non esiste. Anzi, l’antilingua esiste solo in italiano e non altrove.

Perché? Ce lo spiega il celebre linguista Tullio De Mauro nel suo saggio Due parole.

L’italiano nacque nel 1525 con le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Non esisteva come lingua e fu creata a tavolino.

Si presero due autori a modello: Francesco Petrarca per la poesia e Giovanni Boccaccio per la prosa.

La nostra lingua nacque basandosi su opere letterarie di scrittori vissuti due secoli prima e non sul parlato, che differiva moltissimo da regione a regione e da città a città.

L’italiano, dunque, è sempre stata una lingua “costruita”, a differenza dei dialetti (diversissimi tra loro) che sono stati sempre vivi e veicoli della comunicazione di ogni territorio.

Ogni italiano, dal 1525 in avanti, ha sempre avuto due codici comunicativi: quello locale e quello “istituzionale” (le cose sono iniziate a cambiare, progressivamente, solo dalla metà del Novecento, con la televisione e l’alfabetizzazione di massa).

Questo scenario ha prodotto una frattura tra come si parla e come si scrive.

Un esempio emblematico ci arriva da Totò e Peppino nel celebre sketch della lettera nel film: “Totò, Peppino e la malafemmina”.

Loro sono due contadini che, per darsi un tono, scrivono con espressioni astruse che si illudono rappresentino l’italiano e per di più, un italiano colto.

Era il 1956. Ma ancora oggi il burocratese è in voga. Lo vediamo in espressioni che nella lingua parlata non si utilizzerebbero mai: “Egr.”, “il 4 c.m.”, “il 16 p.v.”, “con la presente…”, “Alla cortese attenzione”.

  1. Incisività

Brevità e chiarezza portano, nella maggior parte dei casi, anche all’incisività. Essa è un’altra componente fondamentale per l’efficacia della scrittura, ciò che di fatto la rende diretta ed assertiva.

Due suggerimenti per essere incisivi:

Occhio all’inizio

Molti testi vengono letti solo nelle prime parole o nelle prime righe.

Se non ci convincono o ci annoiano, li abbandoniamo.

Questo aspetto psicologico del lettore ci porta a dover curare l’inizio con attenzione maniacale.

Le prime parole e le prime frasi determinano l’andare avanti nella lettura delle nostre mail, report, verbali, articoli da parte del nostro interlocutore.

Uno dei più grandi comunicatori di tutti i tempi, Cicerone, cominciava le proprie orazioni sempre con grande intensità.

Nelle Catilinarie, ad esempio, l’inizio è caratterizzato da una serie di domande sferzanti. Tutte le grandi opere letterarie hanno incipit memorabili (basti pensare alla Commedia di Dante)

Attenzione alla punteggiatura

Virgole e punti determinano la velocità e la comprensibilità del nostro testo.

Serviamocene in modo corretto.

Evitiamo le virgole tra soggetto e predicato, ed altri errori di sintassi come suggerisce Alessandro Zaltron nel suo testo “Le parole sono importanti” (Franco Angeli, 2015).

Brevità, chiarezza, incisività: tutto in direzione della funzionalità.

E la bellezza? Va esclusa?

Un parallelo che porto sempre è quello tra la comunicazione e l’abbigliamento.

I vestiti ci occorrono, ma non per questo servono solo a coprirci.

Come cercare l’estetica nell’abbigliamento è consigliabile per non apparire sciatti o trasandati, così ricercare la bellezza nella scelta delle parole e nella musicalità del periodo va nella direzione del buon gusto nello scrivere.

Ma attenzione: in ambito professionale, i virtuosismi non sono apprezzati.

Ci stiamo sempre più abituando alla quantità di scrittura presente nelle nostre giornate.

Ma questa quantità e la facilità che rendono ormai lo scrivere un atto abitudinario e quasi scontato, tolgono tempo, attenzione e preparazione ad altre attività di cui invece avremmo, in molti casi, grande bisogno di tempo per farle bene.

Scrivere è usato per le cose più banali ma, di per sé, non è affatto banale.

Ci si accorge di questo e dei propri limiti nei momenti in cui una comunicazione scritta è di quelle delicate: sintetizzare una riunione importante, porre una richiesta a un capo o a un cliente difficile, ma anche formulare un invito a cena a cui teniamo molto o esprimere delle scuse.

Allora, per quelle righe, si impiega molto tempo e spesso lo si spende male.

Il più delle volte, ci si perde perché vogliamo elaborare una comunicazione senza strumenti o senza metodo.

Per evitare che ciò accada, è necessario curare con attenzione tre fasi:

  1. Progettazione

Il primo passo da fare per scrivere non è scrivere ma…pensare!

Questo è fondamentale per l’impostazione del nostro scritto. Possiamo definirla “strategia della scrittura”.

Prendiamo l’esempio della scrittura di una mail.

E’ necessario chiedersi:

Quale è il mio obiettivo comunicativo?

Ad esempio, informare, vendere, esprimere un punto di vista, sollecitare un’azione, dare direttive, condividere dati o contenuti.

In funzione di questo obiettivo:

  • Confermo che il canale comunicativo ipotizzato è quello giusto?
  • Quali messaggi devo passare? Che rilevanza hanno e quindi che ordine di priorità gli do?

Chi è il mio interlocutore?

Ovvero: Qual è la sua età?

Quale il suo ruolo professionale e che tipo di relazione ci lega? Parla/scrive molto o è di poche parole?

È una persona formale o piuttosto informale? Che termini usa o preferisce?

Disporre di queste informazioni ci sarà utile per l’elaborazione dello scritto.

  1. Redazione

Arrivo a questa fase quando ho pronta la “scaletta”, vale a dire i concetti che devo o voglio esprimere nell’ordine in cui decido di esprimerli.

A questo punto devo argomentarli: lo faccio buttando giù i pensieri senza fermarmi, senza curarmi, in prima battuta, degli errori formali che posso fare.

Così infondiamo energia alla scrittura senza trascurare concetti e contenuti.

  1. Revisione e invio

Giunto a questo punto, mi troverò una bozza.

C’è tutto quello che voglio dire nell’ordine in cui devo dirlo ma mancherà la precisione: ci saranno frasi da accorciare, parole da sostituire, qualche errore da correggere.

Dovrò prestare molta attenzione nel controllo e nella revisione del testo.

L’invio coinciderà con il momento in cui avrò la ragionevole certezza che lo scritto centrerà tutti gli obiettivi prefissati.

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