Lo sperimentalismo

Corso di formazione

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Lo sperimentalismo

Correva l’anno 2003 quando il responsabile della formazione di una azienda televisiva mi disse testualmente: “Noi – riferendosi al management  – ormai abbiamo provato di tutto, la barca a vela, il teatro, gli psicodrammi, l’orchestra…difficile trovare qualcosa che ci sorprendi”.

Ho evidenziato in corsivo le due parole chiave alla base del concetto di sperimentalismo: “provare” e “sorprendere”.

Nello sperimentalismo, l’esperienza formativa diventa un “esperimento”  e  “sorprendere i partecipanti” l’obiettivo principale da raggiungere.

Un altro esempio, tanto per capirci.

Di recente, un consulente formatore mi ha riferito di aver inserito, in un percorso di formazione manageriale, una sessione con una Jazz Band come metafora della capacità di improvvisare.

Tuttavia, sollecitato da una mia domanda di chiarimento, il consulente non mi ha saputo spiegare esattamente il “dove, come e quando” quei manager avrebbero dovuto “improvvisare” nella loro realtà lavorativa.

L’evento era scollegato da una reale dimensione applicativa, configurandosi quindi come una sperimentazione.

Il mensile della rivista Capital dell’aprile 1995, riporta alcuni esempi di questi approcci sperimentali alla formazione:

  • Un gruppo di manager di una multinazionale tedesca del tabacco, convocati per un seminario di un paio di giorni, hanno dovuto affrontare l’imprevisto. Anziché condurli, come promesso, in un hotel di lusso, il confortevole pullman su cui erano saliti li ha scaricati in uno sperduto villaggio al confine polacco. A disposizione solo una locanda scalcinata con materassi e sacchi a pelo dell’esercito russo e bagno in comune. Unici altri ospiti: un gruppo di artisti alternativi, giubbotti di pelle, capelli lunghi ed orecchino, che hanno diviso con loro l’intero weekend. Sistemazione e compagnia – gli hippies erano in realtà i consulenti di società specializzata in corsi sulla creatività – erano state scelte dal responsabile marketing della società.
  • Un guru della creatività, se avverte un calo di concentrazione, invita tutti a disporsi in coppie e a prendersi  – non troppo violentemente – a schiaffi.
  • Sempre lo stesso personaggio, propone un esercizio in cui chiede ai partecipanti di immedesimarsi in un oggetto – come una penna stilografica, ad esempio – e di raccontare quello che la persona pensa e prova come se  fosse l’oggetto stesso.
  • Una società di consulenza propone una “crociera formativa” di tre o sei giorni per gruppi di manager, dove le giornate si aprono con una breve discussione sul tema aziendale del giorno per passare successivamente alla suddivisione delle mansioni dell’equipaggio. A rotazione, tutti devono occuparsi di tutto. Anche le regole di comportamento sono stabilite dal gruppo, proprio a partire dal tema aziendale discusso ed ogni navigatore vi si deve attenere Una telecamera riprende i diversi momenti della giornata e permette di verificare lo scostamento di ognuno dagli obiettivi prefissati.

E poi ancora:

  • Pirobazie o camminate sul fuoco
  • Celle monastiche
  • Celle carcerarie vere con finti ma perfidi aguzzini – è successo negli USA
  • Power pole – il palo del potere: dopo aver scalato un palo alto una dozzina di metri, la persona deve lanciarsi verso un trapezio – metafora della presa di potere e del “chi non osa non sarà mai un vincente”.
  • Corsi di sopravvivenza con attraversamenti di ponti tibetani, di fiumi con zattere da costruire e discese  dalle  cime con delle funi.
  • Attraversamento di deserti o scalate di montagne
  • Bungee jumping
  • Rafting
  • Parapendio
  • Deltaplano
  • Meditazione, Yoga, Ipnosi, Shiatzu

I romani dicevano “Cui prodest?” – a chi giova? Vale a dire, a cosa serve tutto questo in azienda?

Chiariamo subito un punto: nel privato ognuno è libero di fare quello che vuole ed ognuna delle attività sopra indicate può avere, di per sé, la sua valenza formativa.

Tuttavia, alcuni problemi possono nascere nel momento in cui un’azienda strumentalizza tali attività, compiendo l’ abuso psicologico di “obbligare” in qualche modo le persone a partecipare.

Abbiamo già avuto modo di sottolineare come nella formazione “creatività” sia diverso da “arbitrarietà” o “eccentricità”. Francamente dubito molto che prendere a schiaffi il collega a fianco sia un modo creativo per aumentargli la concentrazione o se mi lancio da un palo per afferrare un trapezio sarò più motivato alla “presa del potere”.

Non trovo molto etico il fatto che mi si chieda di “aziendalizzare” la mia dimensione interiore attraverso lo Yoga o altre forme di meditazione.

Credo che particolari esperienze di crescita personale debbano essere vissute al di fuori della finalizzazione lavorativa e soprattutto compiute per libera scelta.

Sarà eventualmente l’individuo, in un secondo momento,  a valutare se e come  indirizzare le risorse e le riflessioni, acquisite nel contesto privato, verso il proprio ambito professionale.

La formazione come palestra della professionalità non può sicuramente travalicare il limite agonistico oltre il quale regnano l’esaltazione ed il fanatismo.

“Chi osa, vince” è il motto dei paracadutisti inglesi.

L’ideale atletico della professionalità, per come l’abbiamo inteso in questo libro, non va confuso con lo spirito militare, la mistica della sofferenza o l’anarchia metodologica secondo la quale “tutto può diventare formazione in azienda”.

Testimonianze e commenti:

  • “Quello che mi è rimasto è il ricordo di una grande fatica e senso di inadeguatezza di fronte ai miei colleghi” .
  • “Il mercoledì sera volevano tutti tornare a casa – racconta un consulente che ha gestito un corso su una barca a vela – una crisi di rigetto è normale. Specie per la crociera di sei giorni: lavorare su se stessi, sempre a contatto con gli altri, è faticoso.

      Per di più è previsto che dalla barca non si scenda mai” .

  • “Le scuole di sopravvivenza sono la degenerazione della nostra società: davvero non capisco il notaio o l’avvocato che pagano fior di bigliettoni per poi mangiare delle radici; se andassero da soli in un bosco, imparerebbero di più”.
Lo sperimentalismo

I manager, come lavoro, non fanno i velisti, i paracadutisti o gli esploratori di deserti.

A ciascuno il suo: ad ogni tipologia professionale deve corrispondere uno specifico contesto di “allenamento”.

Ritrovarsi all’interno di una metafora emotiva allo stato puro, estrapolata da un altro contesto professionale totalmente diverso, senza la strutturazione di un ciclo dell’apprendimento da outdoor,  può comportare una seria deriva psicologica, oltre a rischi per l’incolumità fisica.

E’ come gettare una potente àncora e non trovare il fondale dove “ormeggiare la nave dei significati”.

Lo sperimentalismo si verifica quando la metafora emotiva perde il suo valore strumentale ed interpretativo per sostituirsi direttamente alla realtà, rimanendo in tal modo un esperimento fine a se stesso.

“Se il problema dell’azienda è motivare le persone, questi corsi funzionano.

Queste esperienze sono metafore della vita lavorativa, ma bisogna saper entrare ed uscire dalla metafora a seconda delle esigenze aziendali”, conferma un responsabile della formazione di una azienda di telefonia mobile.

Come dire: un dirigente che rimane mentalmente ed emotivamente nella metafora, per l’azienda si è perso…nel deserto!

Un duplice errore nello sperimentalismo è vedere la motivazione delle persone in un rapporto di causa-effetto e confonderla con l’incitamento.

Non credo che, dopo aver riprodotto la danza dei Maori, le persone si sentano “più motivate”.

Forse saranno più incitate o divertite a seconda delle percezioni.

L’incitamento è una stimolazione emotiva che viene dall’esterno, una sorta di pungolo psicologico il cui effetto è momentaneo.

La motivazione sul lavoro, invece, è una complessa costellazione di elementi psicologici di lunga durata ed i problemi ad essa legati sono ben altri.

Molto probabilmente, una busta paga più pesante, un clima psicologico più sereno, un ambiente fisico più sicuro e confortevole, un capo competente che fa crescere i suoi collaboratori, la possibilità di disporre del tempo in maniera più flessibile, incidono  di più sulla “motivazione”, intesa come la volontà di rimanere in azienda e dare il meglio di sé, che non attraversare a piedi un fiume gelato o saltare da un ponte appesi ad un elastico.

In ogni caso, per evitare gli errori legati allo sperimentalismo e preservare al tempo stesso il valore formativo insito in ogni attività, propongo alle aziende questa soluzione: cambiare paradigma di pensiero, ossia passare dall’utilizzare le attività sperimentali come formazione “obbligatoria” ad offrirle come forma di incentivazione “a scelta”.

Ipotizzo, ad esempio, una sorta di carnet di cinque biglietti corrispondenti ognuno ad un’ iniziativa gestita ed organizzata al di fuori del contesto aziendale: sessioni di Yoga, un’esperienza di crescita in un gruppo, un corso di cucina creativa, un trekking con una guida alpina, una discesa di rafting.

La persona ne sceglie una e decide quando partecipare, rispetto ad una serie di date fissate.

Sono convinto che attraverso questa innovativa forma di incentivazione, ognuno possa sentirsi libero di svolgere delle attività formative e di crescita personale “sperimentali” secondo i propri gusti e le proprie attitudini.

Credo che, in questo modo, le persone saranno più motivate a  travasare le risorse ricavate dall’esperienza personale in azienda e svilupperanno un importante senso di gratitudine nei  confronti dell’organizzazione.  

Le aziende hanno bisogno di persone preparate ed equilibrate non di esaltati o dei marines.

“Dove si tengono le sessioni di coaching?

Si tengono dove lavorano i capi, non nei luoghi suggestivi e ritirati (…); si tengono nei loro uffici, nei luoghi di sempre, ritagliando il tempo tra gli impegni quotidiani…e, per favore, niente camminate sui carboni ardenti: non ci servono eroi, solo buoni capo all’attacco”.

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